«Sniffare non è doping» La Wada lo depenalizza È una scelta sbagliata
La Wada ha depenalizzato di fatto l’utilizzo di cocaina o di altre droghe sociali, se avvenuto lontano dalle prestazioni. Passiamo da possibili 4 anni di squalifica a zero o quasi. Ma le sembra giusto? Annalisa Scuri
Della notizia si è parlato poco: la decisione in realtà risale al novembre scorso e la nuova normativa è entrata in vigore con l’inizio del 2021.
È molto discutibile. Può essere vero che cocaina ed altri stimolanti non siano assunti per migliorare la prestazione, anche se è difficile escluderlo del tutto: in fondo pure l’allenamento è funzionale alla gara e qualche atleta può sniffare per superare una momentanea defaillance fisica. Ma ammettiamo pure che la coca non sia doping in senso stretto: che senso etico ha questo “liberi tutti”? Punto primo: durante la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi, un atleta recita un giuramento solenne. Questo: «A nome di tutti i concorrenti, prometto che prenderò parte a questi giochi olimpici rispettando e osservando le regole che li governano, impegnandoci nel vero spirito della sportività per uno sport senza doping e senza droghe, per la gloria dello sport e l’onore della mia squadra». Si fa esplicito cenno a doping ma anche a droghe. Come la cocaina. Ma una positività, mettiamo, al testosterone costa quattro anni di squalifica, quella per lo sniffatore tre mesi che si riducono a nulla se il colpevole partecipa ad un programma riabilitativo. Le domande da porsi sono queste: il campione e lo sportivo non sono (o dovrebbero essere) anche simboli e modelli di salute e rettitudine? Non hanno, soprattutto in tempi di globalizzazione e di social, una grande responsabilità come opinion leader, in particolare nei confronti dei più giovani? Le risposte non possono che essere affermative e dunque, al di là di ogni altra considerazione, non era necessario sbandierare al mondo che lontano dagli stadi ciascuno può sballarsi a piacimento senza pagare dazio. La Wada era nata con grandi speranze come ente terzo e sovrannazionale nella lotta al doping, spesso mortificata nei vari ambiti nazionali, pieni di complici e collusi.
Il suo cammino purtroppo non è lineare, com’è evidente nella tristissima vicenda di Schwazer e del suo allenatore Donati, in cui questa istituzione si è schierata in modo ostinato a difesa di una procedura piena di buchi, clamorosamente sconfessata dai giudici e dai periti italiani. La sua terzietà si è tradotta in un’eccessiva vicinanza al Cio, come per la presidenza di Craig Reedie (fino a tutto il 2019) che era contemporaneamente vicepresidente del Comitato Olimpico Internazionale. Oggi quest’occasione persa per rinsaldare l’immagine positiva del campione: non se ne sentiva il bisogno, il risultato non è tutto.