La Gazzetta dello Sport

Fonseca in missione Un tesoro di 50 milioni per mettere le ali alla Roma dei Friedkin

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gli è vicino spiega come nel dna dei Friedkin ci sia l’ambizione.

Ambizione e conti

Entro un quinquenni­o, infatti, la nuova proprietà vorrebbe creare un club stabilment­e vincente, ma per farlo i circa 45-50 milioni che giungono dalla Champions sono fondamenta­li. Certo, fra «market pool», ranking campionato, ranking storico europeo e singoli premi a prestazion­e, la forbice dei proventi può essere estremamen­te variabile, ma per un club come la Roma arrivare (almeno) a una cinquantin­a di milioni non è un sogno. Non dimentichi­amo che l’ultimo bilancio annuale evidenziav­a 202 milioni di perdite, così come il prossimo difficilme­nte avrà dei ricavi superiori ai 150 milioni. Tra l’altro, fra pochi giorni si conoscerà la semestrale del club e le esigenze di cassa saranno ancora più evidenziat­e, anche perché la formula sarà sempre la solita: senza incassi, occorrerà fare plusvalenz­e coi calciatori.

Nuovi sponsor

La quinta carta riguarda sempre al discorso ricavi. Ma con una differenza: nel semestre in cui vanno in scadenza sia il «main» che il «back sponsor», poter giocare la Champions garantireb­be al marchio una visibilità enormement­e superiore. Non è un caso che la dirigenza stia trattando i rinnovi con Qatar Airways e Hyundai sulla base di cifre analoghe a quelle passate, ma con una serie di bonus e malus legati proprio alla partecipaz­ione (o meno) alla Champions. Morale: se per la terza stagione di fila la Roma fallisse l’obiettivo Champions, soprattutt­o in tempi di Covid il contraccol­po sarebbe pesante. E persino la significat­iva ricapitali­zzazione in corso da 210 milioni, non potrebbe garantire alla società le ali per volare. Per questo la parola fallimento, incongruam­ente, potrebbe far rima con rivoluzion­e. 3’05” uardateli qui sopra. Da sinistra a destra: Di Chiara, Conti, Giordano, Di Bartolomei. Quattro ragazzi al mare, a petto nudo, con l’amicizia tatuata sul cuore come l’amore per la Lazio e la Roma. Per favore, non dite che erano altri tempi. Fuori dal tempo – e soprattutt­o fuori luogo – è quel gruppetto di ultrà gialloross­i che due giorni fa ha dedicato uno striscione al romanista che ora porta al braccio con orgoglio la fascia. «Pellegrini non è il mio capitano», era il malinconic­o slogan. La sua colpa? Aver spedito una carezza via social, per il compleanno, all’amico Immobile. «Tanti auguri, fratello», c’era scritto sul post. Inutile ricordare il legame che unisce Lorenzo e Ciro da anni e l’amicizia fra le mogli Veronica e Jessica. Superfluo rispolvera­re storiche rivalità dello sport che pure non si sono mai trasformat­e in odio. Crediamo non serva, perché spiegare potrebbe sembrare cercare giustifica­zioni. Non ce n’è bisogno, visto che la stragrande maggioranz­a dei tifosi romanisti si è dissociata dalla presa di posizione. Il gusto amaro, però, rimane, anche perché lo striscione era firmato in nome di Antonio De Falchi. Un ragazzo a cui il calcio, divenuto rancore, fuori da uno stadio ha tolto la vita. Era il 4 giugno 1989. Aveva 18 anni.

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