L’analisi
L’Atalanta stramerita la qualificazione alla Champions League per il terzo anno di fila, senza dover aspettare i risultati degli altri, addirittura con una giornata d’anticipo, quasi fosse “normale”. E invece è tutt’altro che un traguardo scontato: è un’impresa (che garantisce circa 50 milioni di euro) che ci sarà modo di festeggiare anche di più e meglio, quando non ce ne sarà un’altra da tentare dopo quattro giorni. Quello che non merita, la Dea, è trovare comunque il modo di soffrire come ieri, per portarla a casa: 10 minuti (compresi i 4 lunghissimi di recupero) con il cuore in gola, la paura di buttare via tutto, anche tre gol di vantaggio. Con l’aggravante del tentato harakiri per proprie colpe (due errori gravi e un errore) almeno quanto per i meriti di un Genoa trasformato rispetto al primo tempo. Se quella spina improvvisamente staccata è stata dovuta al pensiero andato già - sul 3-0 e poi sul 4-1 con cui Pasalic aveva ristabilito le distanze - alla finale di Coppa Italia di mercoledì, allora il buono di quei patimenti potrà essere proprio quello: un ammonimento in vista della Juve. Perché non è vero che se non fosse così non sarebbe Atalanta. Non quando è così.
Rischio e dominio
Semmai, ma non è il caso di ieri, quando concede qualcosa in nome del suo dominio. Che nel primo tempo è stato totale, dal 5’ in poi: Melegoni (liberato, più che da Rovella, dalla troppa voglia di stare alti di Romero e Djimsiti) e poi Masiello, due ex dal cuore buono, hanno solo sfiorato il gol che forse avrebbe inaugurato un’altra partita e da lì in poi l’Atalanta ha fatto la padrona. Gol di Zapata su assist di Malinovskyi; favore restituito dal colombiano, dopo aver smascherato i limiti di Radovanovic centrale di difesa, tanto più se poco aiutato; 3-0 di Gosens, con la più classica delle combinazioni nerazzurre, da esterno (di testa) a esterno (di testa). Questione di motivazioni diverse, palesate anche dalle scelte dei due allenatori: praticamente zero turnover per Gasp, spazio ai meno utilizzati da parte di Ballardini.
I cambi del Balla
A salvezza già in tasca, una decisione comprensibile abbastanza da cancellare un paio di domande comunque spontanee: cambi azzeccati nella ripresa o scelte sbagliate prima? E cosa sarebbe successo se il Balla avesse messo dall’inizio Pandev (da trequartista e poi da punta comunque mai banale), Caso, Portanova e soprattutto Shomurodov, i quattro migliori del Genoa con Rovella, tutti entrati nella ripresa? Per non dire di Zappacosta e Strootman rimasti in panchina? Di sicuro è successo che il tecnico ha cambiato bene il Genoa, aggiungendo un uomo fra le linee (prima Pandev e poi Portanova) alle due punte. E la sua squadra, molto più libera di testa e in gol per l’11a gara di fila, ha segnato in 45’ le tre reti che aveva preso nel primo tempo.
Errori e messaggi
Aiutata dalle solite distrazioni dei singoli nerazzurri, più che dalle sostituzioni di Gasperini, che sul 3-0 si era concesso di pensare a gestire le forze per mercoledì: una dormita di Djimsiti sul falco Shomurodov, un mani un po’ distratto di Gosens (rigore del 2-4 firmato Pandev), una palla persa sanguinosa di Pessina messa in banca a fine azione ancora dall’uzbeko. Il Gasp ha passato gli ultimi minuti pestando nervosamente lo stesso prato dove 12 anni fa, con il Genoa, aveva perso una qualificazione Champions sognata a ragione. Stavolta no: stavolta, come due anni fa, ha battuto il Genoa quattro giorni prima di andare a giocare una finale di Coppa Italia e ha una squadra che forse di gambe sta addirittura meglio di allora, al di là delle 13 vittorie nelle ultime 16 partite. Di testa a volte no, ma se il “messaggio” di ieri arriverà anche a quella, ce n’è abbastanza per sperare in un altro epilogo. 3’08”