Che storia, il rigore
Ha ispirato scrittori ha deciso Mondiali ha liberato la fantasia
Lo inventò un portiere, numeri 1 come Ceni o Chilavert li paravano e li segnavano Panenka con il primo scavetto vinse un Europeo, Totti e Pirlo i nostri specialisti Dal dischetto Baggio ci ha fatto piangere, Grosso ci ha messo in cima al mondo
Che il calcio di rigore sia stato inventato da un portiere, cioè proprio da colui che ne sarà la vittima, racconta il grado di masochismo presente nella natura umana. Eppure le cose andarono proprio così. Siamo in Irlanda del Nord. Precisamente a Milford, nella contea di Almargh, 70 km. a ovest di Belfast, tra il 1885 e il 1890. William Mc Crum, figlio di un imprenditore milionario e studente modello al Trinity College di Dublino, si dilettava a praticare il football: faceva il portiere per il Milford Everton. Infastidito dall’irruenza dei suoi compagni nella sua area di rigore, che pur di evitare un gol facevano di tutto, anziché esserne felice perché gli evitavano grattacapi, si lamentò e studiò il modo di porre rimedio a quel comportamento che lui, con nobiltà d’animo e spirito veramente sportivo, considerava barbaro.
Il tiro “libero”
Così si decise che ogni intervento scorretto accaduto in area di rigore, se compiuto dal giocatore difendente, doveva essere punito con il calcio di rigore. O meglio: con un tiro «libero» (cioè senza opposizione, tranne quella del portiere) che doveva essere scagliato dalla distanza di dodici iarde (pari a 10,97 metri). L’idea di Mc Crum venne accolta con parecchie perplessità, soprattutto dagli inglesi, i quali tuttavia dovettero adeguarsi alla maggioranza dei membri dell’International Board che il 2 giugno 1891, in un albergo di Glasgow, stabilirono l’entrata in vigore della nuova regola. Il primo rigore venne ufficialmente calciato il 14 settembre 1891 a Wolverhampton in una partita tra i locali Wanderers e l’Accrington Stanley. La rete fu di tale Joseph Health, la gara terminò 5-0 per Wanderers. Da quel giorno il calcio di rigore è una presenza fissa nelle sfide di pallone. Una specie di incubo per chi lo subisce, un sogno per chi se lo vede assegnato, in attesa di trasformarlo in realtà. Il poeta spagnolo Camilo Josè Cela lo ha definito «la pena di morte del calcio». Lo scrittore Osvaldo Soriano ci imbastì sopra una delle più belle storie di letteratura legate al pallone: «Il rigore più lungo del mondo». Un tiro che dura una settimana intera, perché il tremebondo arbitro Herminio Silva sospende la partita, e alla fine, quando il gioco riprende, El Gato Diaz, portiere dell’Estrella Polar, para la conclusione dell’attaccante ed è «come se avesse estratto la pallina vincente alla lotteria». Nel tempo che intercorre tra l’assegnazione del rigore e la sua esecuzione è come se la vita fosse sospesa: una strana sensazione di incertezza, da una parte e dall’altra, e la consapevolezza che dopo nulla sarà più uguale a ciò che si è lasciato. Vale sia che il pallone finisca in rete sia che venga respinto, o che termini contro un palo, contro la traversa o fuori dalla porta. Un rigore, proprio come la pena di morte, è uno spartiacque della storia. Forse William Mc Crum non aveva in mente che la sua invenzione potesse comportare tali implicazioni psicologiche, ma di fatto è così. Il Premio Nobel Peter Handke, nel romanzo «Prima del calcio di rigore», paragona l’angoscia del protagonista che si è appena reso colpevole di un omicidio a quella che provava, da ragazzo, di fronte a un avversario che stava per calciargli un rigore.
Panenka e il cucchiaio
Esagerazioni? Metafore azzardate? Semplici divagazioni narrative? Può essere, resta il fatto che tutti, prima o poi, da bambini, adolescenti o adulti, ci siamo trovati a fare i conti con il problema, abbiamo sistemato il pallone sul dischetto e abbiamo calciato. E le emozioni che hanno scosso i nostri corpi, se la memoria non è ingannevole, dal momento della rincorsa a quello del tiro fino alla scoperta del risultato, sono materia per gli psicanalisti. Chissà che cosa pensò il cileno Carlos Vidal che ebbe l’onore di calciare il primo rigore a un Mondiale: era il 19 luglio 1930, lo assegnò l’arbitro uruguaiano Tejada. Vidal lo sbagliò, parato dal
francese Alexis Thépot che dalla stampa di Parigi venne definito un eroe nonostante la nazionale fosse stata sconfitta. Il primo gol su rigore a un Mondiale lo realizzò il messicano Manuel Rosas. Era lo stesso giorno, sabato 19 luglio 1930 appunto, ma a un’ora più tarda. Migliaia sono le avventure che circondano l’argomento «rigore», e di vere e proprie avventure si tratta, con tanto di intrecci grotteschi e talvolta surreali. Sarà pure vero come canta Francesco De Gregori, «Nino non avere paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore…», però gli argentini un vago giudizio su Martin Palermo lo diedero il 4 luglio 1999. Il centravanti, in una sfida contro la Colombia, si presentò per tre volte sul dischetto e per tre volte sbagliò. E dopo la partita ebbe il coraggio, o la sfrontatezza, di dichiarare: «Se ci fosse stato un quarto rigore, avrei calciato anche quello». Forse l’allenatore e i compagni lo avrebbero fermato prima che si fosse impossessato del pallone, e non avrebbero avuto torto. Meglio prevenire che curare…E poi ci sono quelli che vanno sul dischetto con la spensieratezza dei ragazzini. Come dimenticare il Totti che, nella semifinale dell’Europeo del 2000 contro l’Olanda, dopo una partita che gli azzurri avevano giocato dentro la loro area di rigore, va sul dischetto e, prima d’incamminarsi, dice a un compagno: «Mo’ je faccio er cucchiaio!»? E così fece, scavetto sotto il pallone, gol e Van der Sar ipnotizzato. L’idea era venuta, ventiquattro anni prima, ad Antonin Panenka che in quel modo beffò Sepp Maier e regalò alla Cecoslovacchia il titolo europeo. Lo sguardo del portiere tedesco, tra lo stordito e l’arrabbiato, resta una delle immagini simboliche di chi si sente vittime di una beffa, se non proprio di un’ingiustizia.
La rivincita dei portieri
Ci sono, però, portieri che si sono presi le loro rivincite e sono andati in prima persona sul dischetto. In Italia i più anziani ricorderanno Lucidio Sentimenti, per tutti Sentimenti IV, che in carriera segnò cinque rigori, di cui uno al fratello Arnaldo. In Sudamerica la palma del migliore va sicuramente a Rogerio Ceni, brasiliano, che con il San Paolo realizzò la bellezza di 69 rigori. E poi ci sono José Luis Chilavert, cui capitò la ventura di calciarne e di segnarne tre in una partita sola, oppure il colombiano René Higuita che abbondava in stranezza anche quando si presentava al cospetto del collega avversario e cominciava con le smorfie, le finte, i saltelli e tutte quelle bizzarrie lì. Un modo perfetto per calciare un rigore non esiste, checché ne pensino gli esperti informatici che da anni si scervellano al computer per trovare una soluzione al problema. Li hanno sbagliati i migliori al mondo, da Maradona a Pelé, e li hanno segnati sconosciuti «scarponi» su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Il fatto è che, al di là dello stile e della tecnica, conta il cervello. E non farsi imprigionare la mente dalle emozioni, quando uno stadio intero ti guarda e sai che la felicità della gente dipende da te, è cosa piuttosto complicata. Roberto Baggio, il rigore decisivo al Mondiale del 1994, lo spedì in cielo. Fabio Grosso, che di Baggio non aveva la stessa tecnica e lo stesso stile, lo mise in rete e l’Italia del 2006 diventò campione del mondo. Sbagliato o realizzato, un rigore consegna la polvere o la gloria, e poi non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore?