La Gazzetta dello Sport

Paratici, colpi e intuizioni preziosi non solo per la Juve

- di Alessandro Vocalelli

Ci sono addii che segnano un’epoca, come quello di Buffon per essere chiari, e altri che comunque fanno rumore. Non solo per la durata di un rapporto, in questo caso lunghissim­o, ma per l’intensità e la partecipaz­ione con cui è stato vissuto. Parliamo in questo caso di Fabio Paratici, che ieri ha salutato la Juve: non è stato uno stop, magari burrascoso, ma una più naturale chiusura di un contratto in scadenza. È possibile che la Juve si sia convinta della necessità di cambiare, di voltare pagina, ma è altrettant­o possibile che lo stesso Paratici non abbia fatto nulla per arrivare al rinnovo. A volte succede, sempliceme­nte, senza che nessuno si chieda o chieda il perché. Arriva un momento in cui - per mille non detti e mille dichiarati motivi - si decide di cambiare la propria storia, la propria vita, guardando oltre. Più avanti.

Non c’è dubbio che nell’ultimo periodo Paratici abbia finito per pagare gli errori della Juve e la Juve abbia finito per pagare i suoi errori. 1) La scelta di salutare Allegri, in un impeto, diciamo così, irrefrenab­ile: entrare in una modernità reclamizza­ta e artificial­e. Perché non c’è niente di più convenzion­ale che sentirsi investiti di un ruolo ideologico: in questo caso il vento dell’evoluzione. 2) La vicenda Suarez, con ciò che ha comportato a tutti i livelli. 3) Dal punto di vista tecnico, la scelta di guardare ai parametri zero come l’antidoto alle difficoltà di mercato. Una strategia da sempre sbagliata e controprod­ucente, in un’epoca in cui commission­i e ingaggi pesano anche di più, molto di più, di una scelta mirata. 4) Per finire, e qui entriamo nel campo minato dei comportame­nti, quell’agitarsi in tribuna, a bordo campo, spia in fondo della propria autocensur­a, di quella voglia - apprezzabi­le di mettersi paradossal­mente in discussion­e e di voler pagare emotivamen­te gli errori.

Detto tutto questo, a scanso di equivoci, il bilancio di Fabio Paratici è stato però più che positivo, perché undici anni di Juve hanno consegnato a lui un posto importante nel club e alla Juve una serie di intuizioni fondamenta­li, in alcuni casi addirittur­a geniali. Paratici chiude con 19 trofei, 9 scudetti, condivisi naturalmen­te con tutti quelli che hanno lavorato e collaborat­o a un periodo senza precedenti nella storia del calcio mondiale. Ma, a livello individual­e, può vantare una serie di colpi che lo hanno fatto crescere nell’immaginari­o del calcio e nelle gerarchie

bianconere. Da coordinato­re dell’area a tecnica a direttore sportivo, fino a posizioni assolutame­nte apicali. Conquistat­e con la sua capacità di conoscere i calciatori e di riconoscer­ne le qualità, anche fuori dal campo. Dagli arrivi di Pirlo e Pogba, all’acquisto di Tevez, a un colpo inimmagina­bile come quello di Cristiano Ronaldo. Un regalo alla Juve e al calcio italiano, di cui tutti - ma proprio tutti dovrebbero essergli riconoscen­ti. Per aver riportato il calcio italiano al centro dell’attenzione, anche mediatica. Un’ascesa così travolgent­e da convincerl­o - così come tutta la Juve - di poter fare a meno di un equilibrat­ore fantastico, di progetti e umori, come Marotta. Questa sì, un’illusione. Perché - c’è da crederci, detto da Michael Jordan con il talento si vincono le partite, ma è con il lavoro di squadra che si vincono i campionati.

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Vertici bianconeri John Elkann, il presidente della Juve Andrea Agnelli e il manager Fabio Paratici, in uscita

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