Il piano (difficile e tardivo) per salvare il calcio dal crac
La situazione è grave e stavolta, a dispetto del noto aforisma di Ennio Flaiano, è pure seria. I numeri catastrofici dei conti del Barcellona, cioè del club che fino al 2020 vantava un saldo primo posto nella classifica europea dei ricavi e che oggi denuncia perdite per 481 milioni nell’ultimo anno e una massa debitoria vicina al miliardo e mezzo di euro, ne sono l’ultimo ma forse più significativo segnale. Anche i ricchi piangono. Non tutti per la verità. Ormai si sta delineando un sistema calcistico a due velocità. Il Covid pure nel mondo del pallone ha infierito sugli organismi più debilitati. Se la Premier League può ancora fingere che niente sia accaduto, ricorrendo alle cospicue riserve accumulate in precedenza, e se il Paris St. Qatar ha facoltà di attingere a un Fondo sovrano senza fondo, Serie A e Liga devono fronteggiare una emorragia di campioni e possono permettersi soltanto un calcio mercato a colpi di cambiali. Ovviamente il problema non è solo il mercato attuale, ma è soprattutto come riavviare un motore esausto e garantire quel minimo di equilibrio competitivo che consenta di non ridurre ulteriormente il numero dei possibili vincitori a livello nazionale e continentale. L’Uefa, meglio tardi che mai, sta lavorando a un piano di salvataggio e sostegno, in grado di rilanciare il movimento. Bloomberg ne ha anticipato la componente più congiunturale: la messa a disposizione delle società, oggi quasi del tutto prive di liquidità, di finanziamenti a tassi più che agevolati attraverso la costituzione di un fondo dedicato, pare fino a un massimo di 6 miliardi di euro, che aiuti i club anche a ristrutturare il debito pregresso. Ancor più importante, e tuttora in via di definizione, la parte riguardante la riforma strutturale del Financial Fair Play. Il principio del pareggio di bilancio, già sostanzialmente neutralizzato dall’inizio della pandemia, non sarà più alla base dell’apparato regolatorio, in quanto la sacrosanta idea che nessuno potesse spendere più di quanto incassasse ha finito per limitare gli aumenti di capitale, la possibilità cioè di apportare nuove risorse, ossigeno per l’intero sistema. Si stanno studiando in alternativa norme di calmieramento delle spese di acquisto giocatori e una forma di salary cap che preveda il versamento di una luxury tax da parte di chi voglia sforare i tetti previsti. È proprio questo blocco del costo del lavoro che sta facendo molto discutere tutta Europa. Se c’è chi ne sostiene a spada tratta l’utilità – in Spagna già esiste qualcosa di simile ed è proprio questa regolamentazione che ha costretto il Barcellona sull’orlo del crac a lasciar partire Messi – c’è chi ritiene che questa misura sia efficace in campionati chiusi, come l’Nba per intenderci, dove è possibile programmare a lungo termine, senza l’incubo di promozioni e retrocessioni, ma non sia ripetibile nel calcio soprattutto se i club più importanti (scelti da chi?) non avranno la certezza di partecipare alle competizioni europee principali, Champions o SuperLega, fate voi. Insomma, un bell’impiccio. Ulteriormente complicato dal fatto che nei campionati Usa dove è previsto il salary cap le risorse prodotte collettivamente vengono ripartite in parti uguali senza distinzione di censo, utenza o classifica. Che ne direbbero Florentino, Agnelli e Laporta?