Sì, il calcio è da cambiare ma salviamo i campionati
Sono scelte “orientate soltanto da interessi commerciali”. Questa l’argomentazione principale alla base della presa di posizione della Fifpro, Associazione mondiale dei giocatori professionisti, contro le proposte di riforma del calendario internazionale presentate dalla Fifa e incentrate sulla disputa del campionato del mondo ogni due anni, anziché quattro. “Interessi commerciali”. Curioso notare come si tratti sostanzialmente delle stesse motivazioni con cui la stragrande maggioranza del consesso calcistico – addetti ai lavori, stakeholder e appassionati – aveva respinto sei mesi fa il tentativo di varo della famosa Superlega. Cioè un’idea di organizzazione del futuro del calcio opposta rispetto a quella disegnata dalla Fifa. Da una parte una visione elitaria dello spettacolo da offrire costantemente ai massimi livelli, ma in pratica sempre dagli stessi interpreti (i grandi club), dall’altra un tentativo, apparentemente velleitario, di allargare la platea non solo dei fruitori, ma degli stessi protagonisti dello show (più possibilità per le nazioni minori di qualificarsi per un Mondiale). Si tratta di due diversi modelli di sviluppo del calcio di domani, che convergono però verso lo stesso errore di fondo: tendono entrambi a penalizzare in modo significativo i campionati nazionali, che sono e saranno sempre alla base della passione popolare. Entrambi questi progetti però nascono da esigenze urgenti e perciò non possono essere semplicemente liquidati come improponibili. Il rischio di un distacco graduale delle giovani generazioni dal tran tran di stanchi appuntamenti ripetitivi e spesso poco spettacolari – e che la parcellizzazione dello streaming potrebbe privare di una narrazione convincente – è reale e pone in pericolo la stabilità economico-finanziaria di un sistema già di per sé poco sostenibile e messo alle corde dalla pandemia. Ecco perché “interessi commerciali” e capacità di intercettare nuovi bisogni sono in realtà le due facce di una stessa medaglia. Non c’è contraddizione fra necessità di un rinnovamento che vada incontro ai gusti dei tifosi e possibilità di sfruttamento di nuove forme di ricavo che permettano ai club di riequilibrare i conti. Naturalmente, tenendo fermi i principi base dell’etica sportiva, a partire dal fatto che a una competizione si partecipa per merito e non per censo.
Il 2024, anno da cui dovrebbe partire la rivoluzione di competizioni e calendari, si avvicina. La discussione su che cosa fare e come farlo perciò dovrebbe svilupparsi il più ampiamente possibile e tenendo conto degli interessi di tutti, a partire da quelli degli appassionati. Non si può dire no a qualsiasi proposta senza avanzare suggerimenti alternativi, né scombussolare abitudini, nel caso del Mondiale biennale, senza valutarne tutte le conseguenze. Per dire: se si scegliesse questa strada, gli stipendi del mese di giugno dei calciatori impegnati nelle nazionali partecipanti andrebbero forse integralmente pagati non dai loro club, ma da Fifa e Federazioni, grazie ai nuovi introiti generati. Altro esempio: la riduzione delle soste per le nazionali ha senso, ma il loro allungamento che ricadute avrebbe sui sistemi di preparazione dei calciatori interessati? E soprattutto: che cosa farebbero nel frattempo i giocatori non convocati per gli impegni internazionali? Insomma, il calcio ha bisogno di cambiare, ma è molto difficile cambiare il calcio.