Negli stadi riaperti torna il razzismo Serve una rivoluzione culturale
Il rischio, davvero, è di tornare esattamente indietro di trent’anni. Già, perché trent’anni fa in Italia ci fu, per la prima volta, un’interrogazione parlamentare su un tema preciso: il razzismo nel calcio. Ma anche perché sedici anni fa, era il 2005 - con un coraggio pari all’esasperazione che stava provando - il terzino Zoro si fermò, prese il pallone, lo consegnò all’arbitro e si diresse verso lo spogliatoio. Non ne poteva più di “buu” e ululati: per lui lo spettacolo finiva lì. Ci misero almeno un quarto d’ora a convincerlo e lui - con quel senso di sportività che era venuto meno dagli spalti - accettò di tornare a giocare. «Mi dispiaceva per i colleghi e per tutti gli altri tifosi in tribuna». Una lezione in tredici parole. Poi ne sono successe tante altre, da Kessie a Lukaku, da Balotelli… a una storia che è ricominciata, con gli stadi - finalmente e
giustamente - riaperti. Già, perché rimpiangere gli impianti chiusi solo per non darla vinta a quelli che hanno fatto infuriare Koulibaly e qualche giorno fa Maignan, vorrebbe dire (davvero) arrendersi all’imbecillità. No, gli stadi aperti sono il segno della vita che ricomincia, di tutti quelli che amano lo sport e il calcio, ma non è nemmeno più tollerabile che si riparta esattamente come trent’anni fa. Ci eravamo convinti, o almeno ci eravamo detti, che il Covid, la pandemia, forse ci avrebbe resi migliori. Così non è, almeno a giudicare da ciò di cui stiamo discutendo in queste ore, che ha costretto la Fiorentina (complimenti) a prendere subito le distanze e a mettere a disposizione i filmati; ha costretto il Sindaco Nardella (complimenti) a scusarsi anche a nome di una città fantastica; ha costretto Chiellini (complimenti) a lasciare sullo sfondo la partita contro la Spagna per pronunciare parole chiare e decise su questi nuovi atti di razzismo: «Sì, mi sono vergognato». Quattro parole, stavolta, per testimoniare - da capitano della Nazionale un’offesa che non ha ferito soltanto Koulibaly, ma ha bruciato sulla pelle di tutti. Di chi ha ascoltato le parole del campione napoletano e sta adesso qui a chiedersi cosa bisogna fare. Già, perché qualcosa - davvero - bisogna fare. Perché l’Italia si è ripresa, a livello sportivo, tutto ciò che merita, con una Nazionale amata dagli italiani e apprezzata anche dai tifosi stranieri. Ricordate? A parte quelli che giocavano contro di noi, tutti gli altri erano lì a manifestarci stima e simpatia, con Luis Enrique in prima fila. «Sì, certo, tiferò per l’Italia».
Solo che, adesso, c’è una partita ancora più complicata da giocare, che riguarda l’immagine del nostro calcio, il contenuto delle nostre domeniche, un salto culturale che coinvolge le istituzioni, la stragrande maggioranza di tifosi - come Chiellini - che provano infinita vergogna.
Già, perché il problema è alle radici, come ha dimostrato il paradosso che si è consumato la settimana scorsa in Europa League e che rappresenta davvero un confine. Glen Kamara dei Glasgow Rangers è stato pesantemente insultato con ululati razzisti - nello stadio dello Sparta Praga che, proprio per lo stesso motivo, era stato squalificato e chiuso al pubblico adulto. Solo che per riempirlo e dare un segnale di speranza erano stati per l’occasione invitati diecimila bambini. E da lì, da quel settore, sono partiti i “buu” verso il giocatore avversario.