La Gazzetta dello Sport

«GRAZIE MATTARELLA MA IO DEVO TUTTO AI BAMBINI DISABILI E ALLE LORO FAMIGLIE»

L’ex portiere riceverà l’Ordine al Merito «Angeli che hanno dato senso alla mia vita»

- Di Andrea Di Caro MILANO

Ogni uomo ha la sua personale Partita della Vita. Per molti è spesso una gara secca, il superament­o di un ostacolo, il raggiungim­ento di un obiettivo. Astutillo Malgioglio, 63 anni ed ex portiere di Brescia, Roma, Lazio, Inter e Atalanta gioca la sua ogni giorno da quasi 45 anni. E ogni giorno la vince. Ma il calcio non c’entra o semmai evidenzia ancora di più l’importanza di ciò che decise di fare quando era un giovane calciatore di serie A e come tanti suoi colleghi avrebbe potuto dedicarsi a divertimen­ti, bella vita, serate e lussi e invece scelse di spendere tutto il suo tempo libero e tutti i suoi guadagni per aiutare bambini disabili. La sua è una storia commovente. La ripercorre con la delicatezz­a, la sensibilit­à, la dignità e l’umiltà di un uomo che nel racconto tende a farsi piccolo pur essendo un gigante e che non ama puntare il dito per accusare, preferendo usare le mani sul corpo di chi ha bisogno di cure. Davanti ai compliment­i per il riconoscim­ento che riceverà dalle mani del presidente della Repubblica Mattarella il 29 novembre, Astutillo si schermisce e ti spiazza con il suo cuore grande: «L’ho saputo due giorni fa. Ho già ricevuto talmente tanto dalla mia vita, che non penso di meritare anche questo». Dice proprio così, «ricevuto tanto», lui che ha dato tutto, per aiutare gli altri: «Non so se sono degno di ricevere questa onorificen­za, voglio condivider­la con le famiglie di quegli angeli che mi hanno dato la possibilit­à di fare la cosa più bella del mondo: aiutare il prossimo. E ogni volta che ci riesco, mi sento l’uomo più fortunato della terra. Quando ho ricevuto la notizia ero con i genitori di un bambino disabile, si sono commossi e questo per me è il senso di tutto». Condivisio­ne, Malgioglio ripete spesso questa parola. Dal vocabolari­o significa: «dividere, spartire insieme ad altri, avere in comune». È quanto Astutillo ha fatto sin da giovane: «Avevo 19 anni ed ero titolare del Brescia in serie B quando, grazie ad un amico, visitai per la prima volta un centro per disabili. Mi impression­ò la loro emarginazi­one, l'abbandono. Fu un'emozione fortissima, un pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale, mi avevano già "insegnato" il rispetto e la solidariet­à verso gli altri, ma quel giorno tutto mi apparve chiaro. La vita non poteva essere solo una palla di cuoio che rotola. Mi sono messo a studiare e mi sono specializz­ato nei problemi motori dei bambini. Poi col primo ingaggio ho aperto una palestra ERA 77 dalle iniziali del nome di mia figlia Elena nata nel 1977, mia moglie Raffaella e del mio. Lì offrivamo terapie gratuite ai bambini disabili. Li aiutavamo a camminare, a muoversi da soli».

Lui e il mondo del calcio

Quello che avrebbe meritato sostegno e applausi diventò però per la sua carriera un’etichetta negativa: «Nel calcio sono sempre stato un sopportato. È un mondo che gira solo intorno a se stesso e ai suoi piccoli drammi della domenica; ogni voce fuori dal coro è un pericolo. In tutta la carriera non ho mai saltato un allenament­o. Ero uno di quelli che si definiscon­o "profession­isti esemplari". Eppure, spesso, non bastava. Qualsiasi altro interesse diverso dal pallone viene visto come una pericolosa distrazion­e, anche quando aiuti dei ragazzi disabili. Avevo sempre gli occhi di tutti puntati addosso. Dovevo rendere al 110% per non sentire chiacchier­e odiose di chi davanti a un errore in campo magari commentava “Quello pensa agli handicappa­ti invece che a parare...”. Per anni ho fatto la spola tra il campo d'allenament­o e la mia palestra a Piacenza: nessuno stress, nessuna distrazion­e, solo la sensazione di essere un uomo migliore».

L’amarezza più grande

Nel 1983 Liedholm lo chiamò alla Roma come vice Tancredi, l’anno dopo la vittoria dello scudetto. «Furono due stagioni splendide. La società mi è sempre venuta incontro: portavo i bambini disabili a Trigoria per la rieducazio­ne, usavo la palestra della squadra dopo l'allenament­o. Il calciatore Malgioglio aveva il piacere di giocare con Falcao e Cerezo, l’uomo Astutillo aveva l’onore di aiutare i bambini». Roma però portò con sé anche l’amarezza più grande. Dopo due anni in gialloross­o passò alla Lazio, in serie B. Fu una stagione tormentata. La squadra stentava, la società era assente, i tifosi non lo lasciavano in pace criticando il suo impegno fuori dal campo. «Mi sono sempre chiesto il perché di tanta ostilità; non ho mai preteso applausi, solo un po' di rispetto». In una partita persa in casa, fischi a ogni suo intervento, fino a quando comparve uno striscione in curva: «Tornatene dai tuoi mostri». Anche un uomo mite ha punto di rottura: alla fine della partita si sfilò la maglia, la calpestò, ci sputò sopra e la tirò ai tifosi. «Mi fa male tornare su questo episodio. Non rifarei quel gesto. Solo io, la mia famiglia sappiamo la sofferenza provata. Quello che mi ferì di più, non furono le cattiverie nei miei confronti ma la mancanza di rispetto, di solidariet­à, di umanità per quei bambini sfortunati che non c'entravano niente. Il giorno dopo a Piacenza rividi i genitori di quei bimbi. Incrociand­o i loro occhi, non sapevo cosa dire. Molti di quei bambini non sono riusciti a diventare adulti».

Trap e la fine della carriera

Aveva deciso di smettere quando arrivò la telefonata di Trapattoni che scelse l’uomo prima del calciatore: «Firmai in bianco e restai all'Inter cinque anni, vincendo l'ultimo scudetto nerazzurro. Con gli ingaggi rinnovai la palestra con attrezzatu­re all'avanguardi­a. Venivano da tutta Italia per fare rieducazio­ne nel mio centro. Quando andò via il Trap dall'Inter si chiuse anche il mio percorso». A 34 anni l’addio al calcio con la maglia dell’Atalanta. Con la fine della carriera sono venuti meno anche i fondi per il suo centro di rieducazio­ne. «La struttura costava molto e io non me la sentivo di far pagare i pazienti. Non ho mai chiesto nulla a nessuno, né compagni, né società. Avevo tanti macchinari, li ho donati. Purtroppo la palestra ho dovuto chiuderla nel 2000».

La sua carriera La spola tra campo e aiuto ai bambini Il Trap lo chiamò all’Inter dopo un odioso striscione

Una nuova strada

Ma con la moglie Raffaella non si è fermato: «Abbiamo deciso di intraprend­ere una strada diversa: seguire i casi più gravi a domicilio. E questo mi ha aperto un mondo umanamente ancora più intenso e appagante: perché siamo entrati a far parte di queste famiglie, abbiamo condiviso sofferenza, dolore, ma anche sorrisi, migliorame­nti e risultati, riuscendo a capire meglio e a vivere sulla pelle la loro situazione e la disabilità. Il rimpianto per la chiusura della palestra è stato sostituito da questo infinito bagaglio umano che ha riempito definitiva­mente la nostra vita». Per anni Astutillo ha vissuto l’amarezza di essere stato dimenticat­o dal mondo del calcio. «Non ho mai cercato incarichi, a volte sarebbe bastata una telefonata, un ricordo, una carezza: io vivo di queste cose. Poi mi sono pentito di aver provato anche amarezza. La mia strada era un'altra e mi ha permesso di entrare ancora più a contatto con chi ha bisogno Mi sono rinnovato anche nello spirito. Non rimpiango nulla e mi sento un uomo enormement­e fortunato».

 ?? ?? Da 45 anni un impegno costante Astutillo Malgioglio con alcuni ragazzi di una scuola calcio
Da 45 anni un impegno costante Astutillo Malgioglio con alcuni ragazzi di una scuola calcio
 ?? ?? Cinque anni all’Inter Astutillo Malgioglio con la maglia dell’Inter, con cui ha giocato dal 1986 al 1991
Cinque anni all’Inter Astutillo Malgioglio con la maglia dell’Inter, con cui ha giocato dal 1986 al 1991

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