I clan, le pistole e Maestrelli Squadra unica e inimitabile
Wilson era il leader di un gruppo diviso in due fazioni. I giocatori vivevano sempre all’eccesso, ma poi una volta in campo facevano vedere un calcio spettacolare e vincente
Ogni volta che gli capitava di ricordare i protagonisti di quell’impresa che se ne erano già andati – fossero l’allenatore Maestrelli, Re Cecconi, Frustalupi, Lovati, Polentes, Facco, il dottor Ziaco, il presidente Lenzini, Pulici o Chinaglia – Pino Wilson a un certo punto doveva interrompersi, perché il groppo alla gola diventava troppo forte. Il ricordo dei giorni felici si mescolava alla malinconia degli addii, molti avvenuti precocemente o addirittura nel fiore degli anni. Ora che anche il capitano dell’incredibile Lazio del 1974 è lassù, si fa ancora più forte il rammarico per aver perso un altro pezzo di quel calcio degli Anni 70 che probabilmente è stato l’ultimo a dimensione umana. Di quella formazione, capace di salire dalla B alla A, di arrivare terza l’anno dopo, in un finale da feulleiton, e di vincere il primo scudetto del club biancoceleste appunto nel ’74, Wilson era il “libero”, il regista difensivo, elegante e deciso. Una specie di mix tra Cannavaro e Bonucci, per riportarlo ai tempi attuali. Ed era soprattutto la roccia, il capitano carismatico che chiamava gli altri a raccolta, l’uomo che sin dallo scambio dei gagliardetti era capace di sfidare Beppe Furino, il guerriero della Juventus. Il giocatore aveva classe e movenze armoniose, e un atletismo innato. Durante un’amichevole Italia-Germania Ovest, al suo esordio in azzurro, da ultimo uomo fermò con una rovesciata volante Heynckes che stava involandosi verso Zoff: gli 80.000 dell’Olimpico andarono in visibilio.
Capitano e rockstar Cosa sia stata veramente la Lazio di quegli anni è difficile da riassumere. Era una bellissima squadra, innanzitutto, che il grande Maestrelli aveva forgiato andando a pescare giocatori semisconosciuti (Wilson e Chinaglia arrivavano dall’Internapoli, Serie C) e combinandoli in modo innovativo. Quella squadra aveva terzini (Martini e anche Petrelli) che spingevano all’olandese, aveva tuttocampisti (Re Cecconi) che farebbero la fortuna degli allenatori anche oggi, aveva un centravanti (Chinaglia) che per rivederlo in Italia s’è dovuto aspettare Bobo Vieri. Ma era anche un gruppo molto particolare, figlio del periodo in cui viveva, fatto di eccessi, di generosità, di romanticismo: una squadra con le basette. Era diviso in due clan, quello di Chinaglia e Wilson e quello di Martini, che addirittura avevano spogliatoi separati. Martini entrò un giorno in quello sbagliato, perché aveva bisogno del phon, visto che il suo si era rotto: Pulici gli disse di andarsene e Martini lo minacciò con il collo di una bottiglia d’acqua minerale
spaccata. Le partitelle d’allenamento diventavano battaglie, nessuno voleva perdere, spesso si andava avanti fino al tramonto. Ma la domenica tutta quella energia veniva convogliata verso un unico obiettivo: la vittoria, cercata sin dai primi minuti in modo feroce. E poi le serate insieme, i ritiri trascorsi a fare gare di tiro segno (in molti avevano la pistola), gli abiti alla moda. In quello Wilson era imbattibile: c’è una foto, memorabile, che lo ritrae con un cappottone di pelliccia lungo fin quasi alle caviglie, pantaloni a zampa, stivaletti e Ray-Ban. Una rockstar.
A mille all’ora E poi la politica, quel dichiararsi senza mezzi di termini di destra in un periodo in cui a farlo spesso si rischiava la vita. Ragazzi ribaldi, che si lanciavano col paracadute, sempre a mille all’ora. Così, come accade alla candela che brucia da due lati, quella Lazio durò poco anche perché il destino le fu nemico. Un cancro si portò via nel 1976 Maestrelli, poi l’anno dopo ci fu la tragedia di Re Cecconi. L’epilogo fu triste, Wilson nel 1980 venne coinvolto nel primo scandalo del calcioscommesse, che pose fine alla sua carriera. Ma il capitano non uscì mai dal cuore dei tifosi: il tributo che l’Olimpico riservò a lui e agli altri eroi sopravvissuti nel 2014, a 40 anni dall’impresa, fece accapponare la pelle. E Wilson, ogni giorno di più, diventava il custode di una “lazialità” che faceva rima con unicità. Ora anche la parabola del capitano s’è compiuta: lassù lo aspettano molti amici, quaggiù riposerà accanto a Maestrelli e Chinaglia.
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