«Le idee contano sempre più dei soldi Così si va lontano»
Primo e con il monte ingaggi più basso rispetto alle dirette concorrenti, il Milan indica una strada virtuosa a tutto il calcio italiano. «Bene così, le idee contano più dei soldi» commenta Arrigo Sacchi.
3 L’argomento è alla base di molti suoi ragionamenti. Perché?
«Vi racconto un aneddoto. Alla mia prima stagione da allenatore al Fusignano, mi mancava il libero. Andai da un dirigente, che io consideravo un maestro di vita, il mitico Alfredo Belletti, e gli spiegai il problema. Lui mi disse: “Che numero di maglia ha il libero?”. “Il 6”. Andò a prendere la maglia e dandomela concluse: “Adesso, se sei bravo, il libero lo costruisci con il lavoro e con le idee”. Non c’erano soldi, dunque non c’erano alternative. Quell’anno vincemmo il campionato».
3 Se non hai soldi devi aguzzare l’ingegno: questa è la norma?
«Proprio così. Dovrebbe esserci una regola che dice alle società: non si possono fare debiti. Per essere competitivi è importante avere intuizioni, passione, spirito di sacrificio. Ma in Italia siamo rimasti alla furbizia come qualità principale...».
E’ questo il vero problema?
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«Secondo me, sì. Qui da noi bisogna vincere a ogni costo, anche facendo debiti, anche giocando male, anche fregando l’avversario. Ma non è giusto. In Spagna, ambiente che conosco bene, se vinci giocando male, il pubblico ti fischia: l’ho provato sulla mia pelle. In Italia, invece, ti applaudono. E la colpa, credetemi, è di tutti: presidenti, dirigenti, allenatori, giocatori, tifosi e giornalisti. Con questo andazzo, però, non si cresce: bravo il Milan che ha invertito la rotta e sta cercando di diventare una squadra di livello
internazionale attraverso il rispetto di banali regole economiche, che applicherebbe ogni buon padre di famiglia».
3 E’ vero che lei, una volta, fece vendere due giocatori che pensavano soltanto ai soldi?
«Mi capitò a Parma. Erano due ragazzi che erano con me da cinque anni, ma ormai nelle loro teste c’era soltanto l’ingaggio, non più il calcio. Li mandammo via e non ci furono conseguenze negative sul piano dei risultati, anche perché per me il leader è sempre stato il gioco, non il singolo giocatore».
3 Arrivato al Milan, allontanò un giocatore che non si comportava da professionista e non chiese rinforzi.
«Già, dissi a Berlusconi che andava benissimo la riserva di quello che avevamo mandato via. Berlusconi mi disse: “Ma è meno bravo”. E io: “Sì, ma è più affidabile. Lei lo vorrebbe un
collaboratore poco affidabile?”. “No”. “E allora perché lo vuole dare a me?”. Prima di scegliere un giocatore, ho guardato la persona perché sono stato convinto che i piedi li puoi migliorare, ma la testa no».
3 Anche lei, quando fu ingaggiato dal Milan, firmò il contratto in bianco, vero?
«Esatto. Non volevo dei giocatori avidi e dovevo dimostrare che non lo ero neanch’io. Il Milan, scegliendo elementi giovani e poco conosciuti, ha preso una direzione precisa: si punta sul gioco; se si fa male uno, entra un altro e non si fanno drammi; conta il collettivo, non il singolo. Questa è la strada per arrivare lontano, altro che spendere soldi per acquistare questo o quel campione, che poi magari non è neanche un campione...».