La Gazzetta dello Sport

«Le idee contano sempre più dei soldi Così si va lontano»

- Di Andrea Schianchi

Primo e con il monte ingaggi più basso rispetto alle dirette concorrent­i, il Milan indica una strada virtuosa a tutto il calcio italiano. «Bene così, le idee contano più dei soldi» commenta Arrigo Sacchi.

3 L’argomento è alla base di molti suoi ragionamen­ti. Perché?

«Vi racconto un aneddoto. Alla mia prima stagione da allenatore al Fusignano, mi mancava il libero. Andai da un dirigente, che io considerav­o un maestro di vita, il mitico Alfredo Belletti, e gli spiegai il problema. Lui mi disse: “Che numero di maglia ha il libero?”. “Il 6”. Andò a prendere la maglia e dandomela concluse: “Adesso, se sei bravo, il libero lo costruisci con il lavoro e con le idee”. Non c’erano soldi, dunque non c’erano alternativ­e. Quell’anno vincemmo il campionato».

3 Se non hai soldi devi aguzzare l’ingegno: questa è la norma?

«Proprio così. Dovrebbe esserci una regola che dice alle società: non si possono fare debiti. Per essere competitiv­i è importante avere intuizioni, passione, spirito di sacrificio. Ma in Italia siamo rimasti alla furbizia come qualità principale...».

E’ questo il vero problema?

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«Secondo me, sì. Qui da noi bisogna vincere a ogni costo, anche facendo debiti, anche giocando male, anche fregando l’avversario. Ma non è giusto. In Spagna, ambiente che conosco bene, se vinci giocando male, il pubblico ti fischia: l’ho provato sulla mia pelle. In Italia, invece, ti applaudono. E la colpa, credetemi, è di tutti: presidenti, dirigenti, allenatori, giocatori, tifosi e giornalist­i. Con questo andazzo, però, non si cresce: bravo il Milan che ha invertito la rotta e sta cercando di diventare una squadra di livello

internazio­nale attraverso il rispetto di banali regole economiche, che applichere­bbe ogni buon padre di famiglia».

3 E’ vero che lei, una volta, fece vendere due giocatori che pensavano soltanto ai soldi?

«Mi capitò a Parma. Erano due ragazzi che erano con me da cinque anni, ma ormai nelle loro teste c’era soltanto l’ingaggio, non più il calcio. Li mandammo via e non ci furono conseguenz­e negative sul piano dei risultati, anche perché per me il leader è sempre stato il gioco, non il singolo giocatore».

3 Arrivato al Milan, allontanò un giocatore che non si comportava da profession­ista e non chiese rinforzi.

«Già, dissi a Berlusconi che andava benissimo la riserva di quello che avevamo mandato via. Berlusconi mi disse: “Ma è meno bravo”. E io: “Sì, ma è più affidabile. Lei lo vorrebbe un

collaborat­ore poco affidabile?”. “No”. “E allora perché lo vuole dare a me?”. Prima di scegliere un giocatore, ho guardato la persona perché sono stato convinto che i piedi li puoi migliorare, ma la testa no».

3 Anche lei, quando fu ingaggiato dal Milan, firmò il contratto in bianco, vero?

«Esatto. Non volevo dei giocatori avidi e dovevo dimostrare che non lo ero neanch’io. Il Milan, scegliendo elementi giovani e poco conosciuti, ha preso una direzione precisa: si punta sul gioco; se si fa male uno, entra un altro e non si fanno drammi; conta il collettivo, non il singolo. Questa è la strada per arrivare lontano, altro che spendere soldi per acquistare questo o quel campione, che poi magari non è neanche un campione...».

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Stefano Pioli, 56 anni, allena il Milan dal 9 ottobre 2019 quando venne chiamato a sostituire Marco Giampaolo
AFP La guida rossonera che sogna il titolo Stefano Pioli, 56 anni, allena il Milan dal 9 ottobre 2019 quando venne chiamato a sostituire Marco Giampaolo
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