Dall’Argentina all’Ungheria larinascitanonèunmiracolo
In sette giorni Mancini ha ricreato l’Italia. Ora speriamo non voglia riposarsi come l’illustre predecessore, perché il lavoro è soltanto all’inizio. Ci stavamo già preparando a un decennio infame, ma in fondo erano gli stessi discorsi del dopo Ventura. L’Italia sa essere una fenice. Se però il crollo contro l’Argentina aveva esasperato le negatività, è consigliabile adesso mitigare l’entusiasmo per il pari con la Germania un po’ superficiale e il successo su un’Ungheria non all’altezza. In Inghilterra, contro avversari con un solo punto, a rischio retrocessione, e tanta voglia di vendetta, non sarà lo stesso. Ma lo scenario è comunque cambiato.
Lo spirito è cambiato: l’Italia ha ritrovato l’entusiasmo e la voglia di crederci che avevano condotto un anno fa a Wembley con l’impercettibile presunzione di vincere. Perché sentivamo di poter vincere. Dopo l’Europeo quella voglia è venuta meno, o forse è stato il sentirsi inconsciamente “arrivati” ad abbassare ritmi agonistici e mentali. In ogni caso, l’Italia s’era persa. Tanti errori anche di sottovalutazione:
come se non si rendesse conto che, punto perso dopo punto perso, il mondo, e il Mondiale, le stessero sfuggendo dalle mani. Che lo spirito sia diverso si vede anche dal ritmo, non sembra neanche giugno. Gli azzurri corrono più di tedeschi e ungheresi, corrono facile, perché hanno più voglia e sono messi meglio rispetto alla
Finalissima, davvero l’ultimo capitolo del ciclo precedente. Italia-Argentina è una di quelle partite di svolta che si ripresentano ciclicamente: Francia-Italia al Mondiale ’86 con l’addio di Bearzot, BosniaItalia del ’96 ultima di Sacchi, gli esempi non mancano. Anche la panchina di Mancini ha traballato. Non è che Jorginho,
Bonucci, Emerson, Belotti e Bernardeschi siano diventati da buttare da un giorno all’altro, di sicuro il nuovo capitano sarà ancora utile, ma è come se fossero prigionieri del passato e non riuscissero più a tirar fuori le motivazioni dal loro orgoglio più profondo. Era il momento.
Tutt’altra storia gli scatti disperati di Gnonto, l’essere “attaccante totale” di Raspadori, la classe di Pellegrini che non poteva un giorno non sublimarsi anche in Nazionale, il recupero di Spinazzola che all’Euro creava superiorità in ogni reparto. Hanno modellato un’Italia aggressiva, rapida d’esecuzione, verticale. Nuova. Vincente.
Spiace per chi ha mostrato meno attaccamento, ma è stata una lezione anche per Mancini: la Nazionale non può essere per tutti, qualcuno non la “sente” sua, amen. Basta con il buonismo nelle convocazioni. Chi è dentro deve abbracciare il progetto come Bonucci, Belotti, Florenzi, non più “deb” ma aggrappati alla maglia che è una gioia, non un optional.
Non ultima, in questa folle settimana di resurrezione, la trasformazione tattica dal possesso “guardiolista” alla verticalità del Liverpool di Klopp. Casuale, forse, ma le assonanze sono lo stesso impressionanti: Raspadori versione Firmino, gli esterni d’attacco che incrociano e tirano, la mediana senza regista classico. Dopo aver esaltato un gioco offensivo, non è abiura ma pragmatismo riconoscere che non ci sono più gli interpreti (Jorginho, vediamo Verratti) e quindi cambiare. Il progetto, a questo punto, non può prescindere dalla final four di Nations, il nostro piccolo Mondiale. Si ricomincia come tre anni fa. Con la Macedonia pensavamo di essere finiti nel baratro, l’Argentina ci ha mostrato profondità che sconoscevamo: ne avevamo bisogno per una bella svegliata.