Per i club italiani pochi vantaggi e nessun business
Nprincipio fu il Tottenham, sbarcato sul listino londinese nel 1983, epoca in cui in Italia la legge sul professionismo sportivo (la famigerata 91 del 1981) era in vigore da meno di due anni e la quotazione in Borsa non era nei pensieri dei presidenti. D’altronde, anche volendo, non sarebbe stato possibile quotarsi per via dei vincoli posti dalla stessa legge 81, norma che imponeva il fine non lucrativo: gli utili, ossia la differenza tra ricavi e costi, dovevano essere interamente reinvestiti nella società per il perseguimento esclusivo dell’attività sportiva. Uno scenario rimasto immutato fino al recepimento in Italia della Sentenza Bosman. Con la Legge 485 del 1996 viene finalmente eliminato il divieto di distribuzione degli utili, equiparando così le società sportive alle tradizionali Spa e concedendo quindi ai club la possibilità di essere quotati in Borsa. Processo ancora però non fattibile, almeno fino alla fine del 1997 quando viene approvato il nuovo regolamento per l’ammissione al mercato azionario, riducendo notevolmente i precedenti vincoli. Scompare soprattutto l’obbligo di presentazione degli ultimi tre bilanci in utile, limite oltremodo penalizzante per le società sportive.
Il primo club italiano ad accedere alla quotazione è la Lazio, la cui assemblea delibera l’ammissione in Borsa il 17 gennaio 1998, mentre l’ingresso a Piazza Affari avviene il 5 maggio 1998. Quel giorno la richiesta di titoli supera di circa sette volte l’offerta. Tra i piccoli risparmiatori le domande di sottoscrizione sono superiori di 10 volte rispetto alla quantità di azioni a loro riservate, questo nonostante che il prospetto informativo riveli come la Lazio abbia chiuso gli ultimi due bilanci con un utile rispettivamente di soli 83.000 e 126.000 euro. Il collocamento frutta circa 60 milioni di euro, dei quali la metà finisce nelle casse sociali, mentre il resto va alla Cirio, la società controllante. Due anni più tardi, il 23 maggio 2000 tocca alla Roma varcare la soglia di Piazza Affari. Quel giorno le richieste di sottoscrizione da parte degli investitori superano l’offerta di 3,6 volte, deludendo un po’ le aspettative. L’ultima società a entrare in Borsa è la Juventus, il cui titolo viene ammesso alle contrattazioni a partire dal 20 dicembre 2001.
La storia insegna che l’avventura borsistica non possa definirsi soddisfacente. Nonostante le piccole risalite, spesso legate a risultati sul campo, il trend complessivo dei titoli è stato decrescente. Il problema principale è che le azioni di Lazio, Roma e Juve non sono state scambiate frequentemente, con transazioni poco consistenti e di scarso controvalore. Ciò ha conferito ai titoli una marcata volatilità che si è riflettuta sulla sensibilità del prezzo a seguito della diffusione di qualsiasi tipo di informazione. In definitiva la quotazione non ha portato vantaggi economico-finanziari ai club, i quali durante l’avventura in Borsa non sono riusciti a trasformare l’attività sportiva in un business commerciale. Nello stesso tempo però la presenza a Piazza Affari ha comportato la pubblicazione di dati contabili trimestrali rispetto alla sola redazione del bilancio annuale, l’obbligo di comunicazione al mercato di ogni fatto rilevante, la redazione a partire dal 2006/07 dei bilanci in conformità ai principi contabili internazionali e soprattutto la vigilanza da parte della Consob. Unici elementi positivi in un contesto decisamente negativo.
Anche i bianconeri L’ultima a entrare a Piazza Affari è stata la Juve: la società di Agnelli è presente dal 2001