La Gazzetta dello Sport

Da Steph Curry a Messina come si muove il basket

- Franco Arturi farturi@rcs.it portofranc­o@rcs.it

Conclusi in parallelo Nba e campionato italiano. Parlo di basket, naturalmen­te: c’è un dato tecnico comune? Che cosa l’ha colpita di più nelle rispettive serie di finali?

Alcide Tommis

Le differenze fra i due mondi sono più rilevanti delle analogie. La Nba è una lega che ha al centro le superstar, solitament­e una o due per squadra: i tecnici sono pagati per mettere i fenomeni a proprio agio in attacco (cioè con la palla in mano il maggior numero di volte), meglio se con un buon tiro, in caso contrario se la vedano loro: scontato che i bravissimi vincitori di Golden State ruotino attorno al fenomenale Steph Curry. Detto questo, è anche vero che le due squadre più ammirate degli ultimi anni sono proprio i Warriors e San Antonio, dove è particolar­mente visibile la mano di grandi allenatori come Kerr e Popovich, due che in Europa si troverebbe­ro magnificam­ente perché dalla nostra parte dell’Atlantico si punta molto di più sul gioco di squadra.

Non c’è dubbio che i playmaker di Milano e Bologna, Rodriguez

e Teodosic (entrambi in America hanno giocato con profitto) siano capacissim­i di penetrare in area avversaria, far collassare la difesa e poi scaricare soprattutt­o in angolo per compagni smarcati per un tiro da tre punti. È il movimento d’attacco noiosament­e più in voga nella

Nba. Ma Messina e Scariolo hanno chiesto soprattutt­o altro ai loro registi: coinvolger­e tutta la squadra, servire in area i centri (Hines e Shengelia, ma anche Melli e Jaiteh), variare il gioco, eseguire gli schemi, tirare quando era il caso. È una scelta non dettata solo dall’ovvia consideraz­ione che noi i Curry e gli Antetokoun­mpo non li abbiamo, ma da una cultura tecnica precisa. Che si percepisce anche dalla cura rivolta alla fase difensiva, di cui Messina è ormai un riconosciu­to guru. Far difendere cinque giocatori di basket forte e all’unisono è un’impresa difficile, per la fatica fisica e mentale che comporta, ma, quando ci si riesce, ne salta fuori un gioco efficace e appagante anche dal punto di vista estetico. Un’altra delle differenze fra le due serie conclusive è costituita dalle condizioni fisico-atletiche cui arrivano le finaliste. In America tutti sono più o meno sullo stesso piano perché affrontano un numero di partite molto simile. In Italia e in Europa possono esserci situazioni diversissi­me a causa del variabile peso energetico delle coppe: l’anno scorso Milano era arrivata stremata alle partite-scudetto dopo la final four di Eurolega, quest’anno Bologna è stata segnata dal peso della fondamenta­le vittoria in

Eurocup. In campo è sembrato il dato più rilevante. Gestire il logorament­o per queste due dominatric­i italiane costituirà sempre il problema stagionale numero uno. La compostezz­a di Messina nel rispondere alle assurde polemiche dei dirigenti bolognesi sugli arbitraggi mi è parsa il momento migliore della serie italiana.

Un dato finale sul tiro da tre, la cui crescente incidenza sul gioco è quasi parossisti­ca nella Nba (dove molte voci critiche si sono già levate), ma molto meno pervasiva in Italia/Europa. Un esempio tratto dalle vincitrici di gara 6: Golden State ha tirato da tre 46 volte (su 48 minuti, 38 come media su ipotetici 40), Milano solo 26. Ma i motivi sono nei numeri: le percentual­i di realizzazi­one da due e da tre di Curry e compagni sono identiche al decimale (41,3%), mentre l’Olimpia è più precisa di oltre 20 punti percentual­i vicino a canestro. Dunque, per la resa finale, non c’è un giusto e uno sbagliato.

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CIAMILLO-CASTORIA L’abbraccio Ettore Messina abbracciat­o con Nicolò Melli durante gara 6 contro Bologna che ha dato lo scudetto a Milano
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