Giroud e Origi, caccia al gol ma al Milan serve più qualità
C’è una logica di cooptazione che porta Divock Origi al Milan, dopo gli anni spesi nel Liverpool da attore non protagonista. Arriva e non sposta gli equilibri. Sono lontani i tempi in cui la regina del Belgio, Mathilde, lo confondeva con Lukaku. Era successo nel Mondiale del 2014 in Brasile dopo la partita contro la Russia di Fabio Capello. «Bravo, grazie al suo gol abbiamo vinto», aveva detto la regina stringendo la mano al centravanti dell’Inter. Lui, con un sorriso e l’indice puntato verso Origi aveva indicato il compagno che l’aveva sostituito, firmando poi il gol decisivo per la qualificazione agli ottavi di finale. Origi allora stava giocando nel Lilla, la squadra che ha valorizzato Maignan, Leao e che adesso potrebbe cedere al Milan anche Renato Sanches. Era stato il vecchio Rudi Garcia a lanciarlo in prima squadra contro il Troyes, e lui dopo cinque minuti era andato in gol. A 19 anni si parlava di Origi come della nuova stella nella generazione d’oro del Belgio, concreta e premeditata, cresciuta nel dogma federale del 4-3-3. Lo seguivano Real, Tottenham e Arsenal, alla fine l’aveva preso il Liverpool lasciandolo in prestito per un
anno al Lilla È passato molto tempo, adesso nessuno potrebbe confonderlo con Lukaku. Origi è rimasto quello che era, incantato nel limbo del suo potenziale talento – mai completamente espresso – mentre Big Rom è diventato quello che sappiamo e abbiamo visto. Jamie Carragher, storico difensore dei Reds di inizio secolo e ora popolare commentatore della Premier, diceva che al Liverpool
mancava un finalizzatore lasciando inteso che Origi non lo fosse. In effetti lo score migliore raggiunto ad Anfield dall’attaccante belga è di 7 gol in 34 match di campionato e risale al 2016-17. Col Lilla, in Ligue 1 nel 2014-15 era andato un pelo meglio (8/33) ma siamo là. Il grande Alexander Arnold, ex compagno nei Reds, l’ha definito “big games player”, giocatore da grandi partite, quelle che contano. Doveva pensare soprattutto alla rimonta in Champions contro il Barça, ai gol che avevano aperto e chiuso quel 4-0 della squadra di Klopp dopo lo 0-3 rimediato al Camp Nou. Sul fronte dei gol pesanti c’è un’affinità tra Origi e Giroud, che parlando francese l’ha accolto come un fratello maggiore nell’impatto dei primi giorni al Milan. Anche Giroud, per essere un centravanti, segna poco e bene come testimonia la doppietta che aveva ribaltato l’Inter nel derby, lanciando i rossoneri verso lo scudetto. Però servono quantità e continuità. Chi deve essere il centravanti titolare del Milan, Origi o Giroud? Siamo sicuri che il belga possa garantire a Pioli una quota importante dei gol che sono mancati nella stagione scorsa? Continuo a pensare che i rossoneri avrebbero dovuto investire su un bomber da venti reti a campionato, per fare il salto di qualità. Però c’è una coperta corta, incombono compatibilità avare, bisogna fare delle scelte. Si capisce. È giusto fidarsi di Paolo Maldini, della sua visione, del Dna che si porta dentro. Negli anni in cui suo padre Cesare aveva smesso di giocare per diventare il braccio destro del Paròn Rocco, il Milan non navigava nell’oro. Eppure con gli scarti degli altri (Cudicini, Malatrasi, Hamrin, Sormani) e il lancio dei giovani (tipo Prati) aveva conquistato l’Europa e il mondo. Mi sembra che aggiungere qualità sulla trequarti – De Ketelaere e Ziyech – possa essere una buona strada per allargare il fronte e garantire più rifornimenti e più gol all’attacco. Ibra era la pietra che sosteneva il ponte. Adesso che non c’è – e a 41 anni chissà come tornerà – per descrivere l’attacco di Pioli è buono quel dialogo tra Marco Polo e il Gran Khan che si legge nelle “Città invisibili” di Calvino. Qual è la pietra che tiene su l’arco del ponte? Nessuna – né Giroud, né Origi dunque –, è l’arco che sostiene le pietre. In ballo, là davanti, ci sono anche Leao e Rebic, non dimentichiamo. Se il gioco funziona, i gol arriveranno.