Da Sivori e Platini a Baggio e Del Piero Una maglia che pesa
I fantastici quattro della Juve del passato portavano il numero scelto dal francese
Nella sua prima volta alla Juve, tra il 2012 e il 2016, Paul Pogba aveva indossato per tre stagioni la maglia numero 6, alla quarta aveva osato e si era preso la 10. Nei sei anni al Manchester United non aveva derogato dalla 6. Nella seconda volta a Torino, ricomincia da dove aveva chiuso nel 2016, dalla 10, alla Juve una maglia impegnativa e pesante, carica di gloria. Senza risalire a Giovanni Ferrari e John Hansen, che pure meritano la citazione, e senza dimenticare Paulo Dybala, il più recente degli interpreti, per noi l’Olimpo degli dei juventini della maglia numero 10 è ristretto a quattro fuoriclasse.
Il vizio Un giorno chiedono a Gianni Agnelli di definire Omar Sivori e l’Avvocato non si sottrae, regala all’intervistatore un aforisma destinato a restare: «È più di un fuoriclasse, è un vizio». Omar Sivori, argentino di origini italiane, è stato Maradona prima di Maradona. Alla Juve tra il 1957 e il 1965, fa ciò che vuole con un piede soprannaturale e lo fa senza riverenza alcuna. È geniale e cattivo in uguale misura. Usa il tunnel come arma impropria per umiliare l’avversario e solleticarne i più bassi istinti. A sua volta non resiste alle provocazioni, reagisce con la logica biblica dell’occhio per occhio. Dribbla e picchia nella stessa misura. In Serie A accumula dieci espulsioni, quasi tutte per regolamenti di conti. Alla Juve vince tre scudetti e tre Coppe
Italia e diventa il primo italiano, seppure oriundo, a ricevere il Pallone d’oro, nel 1961. Un’essenza purissima e velenosa di numero 10.
Il Re Ancora l’Avvocato: «Lo abbiamo preso per un pezzo di pane, lui ci ha messo sopra il foie gras». Un’altra battuta di Agnelli a definire Michel Platini, irresistibile 10 alla francese, con una grandeur tecnica e una grandeur intellettuale. Una miscela micidiale di piedi, di spirito e di intelligenza, questo è stato Le Roi Platini alla Juve tra il 1982 e il 1987. Cinque anni di scudetti e di Coppe d’ogni ordine e grado, ma più dei gol, delle punizioni implacabili, degli assist geniali restano le pose, i gesti e le battute. Di queste ultime una svetta su tutte ed è sempre attuale: «Anche Einstein, se intervistato ogni giorno, farebbe la figura del cretino». E poi l’addio a 32 anni ancora da compiere, l’ultima maglia consegnata al magazziniere con una frase secca: «C’est fini, è finita». Niente a che spartire con i lungo-giocanti di oggi. Platini maestro di calcio e di vita. Merci.
L’incompiuto Nei suoi cinque anni di Juve, tra il 1990 e il 1995, Robi Baggio alla Juve è stato un magnifico incompiuto, un amore mai nato a onta dello scudetto e della Coppa Uefa, dei 115 gol segnati e del Pallone d’oro vinto nel 1993. L’Avvocato andò sopra le righe, con una battuta ingiusta durante il Mondiale ‘94: «Prima della partita con il Messico, Baggio sembrava un coniglio bagnato». Non si può dare del coniglio a un fuoriclasse che ha sofferto l’indicibile per via di ginocchia fragili come cristallo. La verità è che Baggio, meditatore buddista, non è mai entrato in sintonia con il mantra della Juve sulla vittoria come bene supremo. Troppo libero, troppo candido. Troppo. Baggio alla Juventus è stato una meravigliosa eccezione.
Il pittore Alessandro Del Piero, in arte Pinturicchio. Sempre lui, l’Avvocato: «Se Baggio è Raffaello, Del Piero è Pinturicchio», disse un giorno. Pintu-chi? Pinturicchio, pittore umbro a cavallo tra XV° e XVI° secolo . Artista sublime, del livello di Raffaello, ma meno conosciuto. Un modo garbato per pungolare Del Piero, un 10 eccelso, negli anni in cui i 10 iniziavano a essere snaturati, anzi combattuti. Scudetti, coppe varie, un Mondiale. Del Piero ha vinto tutto, ma più che altro ha dipinto e spennellato, e ha restituito una meritata fama al Pinturicchio suo predecessore.