Pallone e sostenibilità C’è anche quella ambientale
Una doccia fredda. Non metaforica, reale. Quella che hanno dovuto fare i giocatori di Bremer e Schalke 04 domenica alla fine della partita valevole per il primo turno di Coppa di Germania. Si è giocato nel MarschwegStadion di Oldenburg, città della Bassa Sassonia che, nell’ambito di un piano di risparmi energetici, ha disattivato per tutto il periodo delle vacanze scolastiche il sistema centralizzato di acqua calda che serve tutti gli impianti comunali. Niente di drammatico, s’intende: fra l’altro, si è giocato alle 13, anche se non faceva caldissimo. Però si è trattato di uno dei primi impatti che cambiamenti climatici e crisi energetica, accentuata dalla guerra in Ucraina, cominciano ad avere e avranno sempre più pure sul mondo del calcio. È dei giorni scorsi la notizia che in Francia la ministra dello Sport, Amélie Oudéa-Castéra, ha accennato alla possibilità che fra le misure adottate per ridurre i consumi superflui vi sia addirittura il divieto di programmare partite di calcio e rugby in notturna.
Tutti presi, giustamente, ad affrontare finalmente di petto i temi della sostenibilità economica, ci stiamo un po’ dimenticando che diventa
sempre più urgente occuparsi allo stesso modo di altri tipi di sostenibilità, a cominciare da quella ambientale e dalle problematiche della responsabilità sociale. Nel resto d’Europa, si è già cominciato a lavorarci. La Bundesliga ha appena tenuto un forum su
queste questioni. La Premier League sta studiando una strategia di transizione. L’Uefa ha istituito un suo apposito dipartimento al riguardo, diretto peraltro da un italiano, Michele Uva. Basta pensare soltanto ai voli spesso privati di trasferimento dei giocatori, ai mezzi di trasporto, in gran maggioranza non pubblici, utilizzati dai tifosi per arrivare negli stadi o alle quantità di energie non rinnovabili impiegate in occasione delle partite in tutto il mondo, per rendersi conto di come il calcio contribuisca all’emissione di gas nocivi e quindi all’effetto serra. Eliminando le inefficienze energetiche e adeguando le infrastrutture a livelli di maggiore eco-sostenibilità, con investimenti tutto sommato relativi le società potrebbero realizzare risparmi economici consistenti. Magari non c’è bisogno di arrivare ai livelli del Forest Green Rovers, riconosciuto dall’Onu come club più sostenibile al mondo, squadra inglese di una cittadina nel Gloucestershire, appena promossa in League 1. Gioca in uno stadio dotato di impianto fotovoltaico, con terreno di gioco fertilizzato da concimi naturali, erba tagliata da un robot che si muove grazie all’energia solare e sistema di irrigazione alimentato dall’acqua piovana. Ha ottenuto la certificazione di società “carbon neutral”, grazie anche alla dieta vegana imposta a tutti i tesserati (chissà perché, viene in mente il divieto di tatuaggi imposto da Berlusconi ai giocatori del Monza, ma le motivazioni sono un po’ diverse…). Praticamente impossibile essere più verdi del Forest Green Rovers (lo dice il nome stesso), è però necessario che anche i club italiani comincino a studiare progetti che facciano i conti con il riscaldamento globale e la transizione energetica. Magari chiedendo su questi un sostegno alla mano pubblica. Invece di esserne talvolta ostacolati, come sta accadendo all’Udinese con il suo piano per far diventare il Friuli lo stadio più ecologico d’Italia. Del resto, la strategia approvata dall’Uefa prevede l’adozione di nuove regole di sostenibilità ambientale e infrastrutturale dal 2024 e la riduzione del 50% delle emissioni nocive entro il 2030. Non c’è molto tempo da perdere.