Mancini ha ripreso in pugno le redini A bordo solo chi ha cuore come Raspadori
L’immagine è quella della diligenza senza guida che corre verso il burrone. Ammettiamolo: la sensazione che le redini della Nazionale fossero scappate dalle mani di Roberto Mancini è venuta a molti. Fin dalla prima uscita da campioni d’Europa, a Firenze, contro la Bulgaria, si erano registrati i primi scricchiolii. Per gratitudine e per la convinzione che non ci fosse il tempo per avviare un rinnovamento, anche perché l’età media dell’Italia era comunque bassa, il c.t. ha tirato dritto con gli eroi di Wembley, anche quando era sempre più evidente che la squadra stava perdendo lo spirito e il gioco che l’avevano fatta grande. Mancini, cui abbiamo sempre riconosciuto magia da visionario, a cominciare dalla scelta e dall’educazione lampo di un gioco rivoluzionario rispetto alla nostra tradizione, questa volta non è riuscito a inventarsi nulla per intercettare l’involuzione. Il desolante 0-0 di Belfast è stato forse il punto più basso di una Nazionale ormai completamente svuotata, senza gioco e senza anima. Il tonfo di Palermo contro la Macedonia, per quanto sfortunato nella dinamica del match, è stato il burrone necessario. Traumatica la sentenza del secondo Mondiale perso di fila e sofferta la decisione di non cambiare cocchiere. La
diligenza azzurra si è rimessa in viaggio, finalmente rinnovata: Tonali, Pellegrini, Raspadori, Scamacca, Gnonto… Ma dopo le prime buone impressioni (coraggioso pareggio con la Germania a Bologna, vittoria sull’Ungheria a Cesena), di nuovo la sensazione delle redini scappate di mano, per
l’impotenza con cui abbiamo subito la grandinata di Stoccarda (5 gol), senza rabbia e senza orgoglio, ma ancora di più per le porte da saloon nel ritiro azzurro: gente che arrivava e decideva di andarsene a suo piacimento, incrociando i precettati in arrivo. Un porto di mare. La
fastidiosa impressione di un abbandono tecnico e disciplinare, fino alle ultime convocazioni quando Mancini, come nei film western, è sembrato arrivare al galoppo, montare sulla diligenza in corsa e prenderne saldamente il comando. Ha lasciato a casa le anime molli, si è affidato ai fedelissimi (Jorginho, Bonucci) e a profili meno blasonati (Dimarco, Acerbi), ma dal cuore in fiamme. Ha vinto con Raspadori che ha tutto ciò che chiede a un attaccante e che Scamacca, per esempio, non riesce ancora a dare: talento, sacrificio, spirito di squadra, cattiveria al tiro. Il gol è arrivato dopo la sostituzione non banale di Scamacca con Gnonto. Anche a costo di rinnegare i principi di calcio divertente, ha indossato per la prima volta dal primo minuto il saio del 3-5-2, che in tanta emergenza era necessario. A volte serve più coraggio a difendersi che ad attaccare. Dalle convocazioni al fischio finale, il Mancio non ha sbagliato nulla. Si è rivisto, tirato a lucido, il tocco magico, celebrato nel primo triennio. I festeggiamenti al termine non sono stati esagerati. Perché la notte di San Siro è stato un evento fondativo, la prima pietra di una nuova costruzione. Ha ragione il c.t.: «Vittoria importantissima. Imporsi nelle difficoltà fortifica il gruppo». È stato tracciato un solco etico entro il quale dovranno incanalarsi le anime molli, se vorranno tornare sulla diligenza azzurra. L’esempio da seguire è quello dei Dimarco e dei Raspadori. Quando torneranno i Chiesa e sbocceranno gli Scamacca, potremo toglierci il saio e tornare a divertirci.