Federer piange, Nadal pure Rivalità e amicizia si fondono
Abbiamo una foto fra le mani, di traverso alle palpebre, ci trafigge il cuore. Due uomini si danno una mano, anzi, l’uno cerca la mano dell’altro, cerca una sponda all’emozione, cerca un aiuto perché è adesso - un bambino nudo, neonato alla vita che non conosce ancora, la vita dopo il gioco, il tennis, la vita dopo il campione, il mito. Il tempo nuovo dopo le stagioni della ricca vendemmia, della facilità. Un passaggio fra il pieno e il vuoto delle cose. Federer aveva appena ringraziato tutto e tutti, parlando della famiglia cioè dei giorni a venire e già organizzati, eppure era fortissimo lo scostamento di senso fra le immagini che si sovrapponevano ricordando l’atleta e le parole che andavano in avanti, ma chissà dove. Così si è seduto, sussultando, liberato dalla statua, i singhiozzi così violenti da sembrare solo al mondo, in mezzo al mondo. Accanto sulla sedia del cambio campo, del cambio vita, c’era l’altro che tiene la mano lì - prendila Roger. La mano c’è, in qualche modo c’è da 17 anni, è una comunione spirituale fra i due, fra loro e noi, fra loro e tutti quelli che capiscono. Federer con la mano sinistra cerca e trova la mano destra di Nadal, è una stretta pura: per 17 anni si sono sfidati con l’altra mano, entrambi, ma adesso il dritto è a riposo. Nadal piange, madonna quanto piange. Per avere un controcampo, il regista deve andare a cercare la rilassatezza di Murray, Djokovic, Berrettini. Se la telecamera resta di là, sui due vecchi rivali, non si distingue il festeggiato
dall’ospite d’onore. Un giorno Mattia Feltri, raccontando l’addio al calcio di Totti e quel “romanzo emotivo” che in fondo resta lo sport, e raccogliendo le lacrime di molti, anche tenaci avversari di tanti anni, concluse che in fondo quando muore Ettore, lo piange anche Achille. Perché nella rivalità, nella sfida c’è confronto. Perché ci sono contese che per completezza raggiungono l’architettura perfetta, e una costruzione ideale non resiste allo sbecco, alla sottrazione.
Nadal non piange solo per empatia (fra i due esiste, sincera): piange anche per se stesso, perché la campana suona sempre per tutti, perché davvero siamo ognuno un pezzo della stessa isola. Nella loro lotta per rivendicare e affermare un modello di gioco (che curiosamente e intuitivamente Nike ha da subito “vestito” divaricando gli stili) e che per contrasto è parso il sempiterno schema dell’esistenza, l’archetipo della sfida, i due hanno “naturalmente” imposto un mondo di ricchezza e di possibilità tecnica, agonistica, emotiva. Hanno difeso questa riduzione in scala dell’Universo, ne hanno avuto bisogno come di un nutriente antiossidante, nei giorni duri dei dolori (ovunque: schiena, ginocchio, caviglia, piede). L’integrità di questa immortale partita ha permesso a Federer di convincersi, da numero Uno del mondo, che poteva abbandonarsi a una sensazione mai provata: non avere il controllo della situazione, della partita, del punteggio, se di là c’era Nadal. In ogni disputa, in eleganza e anche in dominio, Federer sapeva volare qualche metro sopra allo spagnolo ma poi atterrava, e l’altro restava su. Le sconfitte (e le vittorie) non scalfivano però l’architettura perfetta che i due (e solo contro e solo insieme) avevano edificato. Il ritorno del 2017 aveva salvato questa dialettica compiuta dalle domande stupide, che vedevano cariata l’esperienza di Federer per le numerose sconfitte. Non cercando più di inseguire Nadal nel palleggio, o di superarlo negli angoli, si era adattato con il talento a un gioco nuovo, ancora un metro o due più avanti nel campo, in risposta, sulle diagonali. Aveva affrontato l’uncino di Nadal con un rovescio in spinta (mai più il backspin) guadagnando decimi di secondo che diventavano poi metri nella presa del campo.
Addensando il suo tennis fino al purissimo estratto, lo aveva evoluto, arricchendo quell’architettura e mostrando a cosa possa servire la rivalità: a migliorare, a guadagnare ancora un passo nella frontiere del gioco, delle capacità, delle soluzioni, del pensiero.
L’altro, incassata la novità, mentre subiva questo rimodellamento della statistica degli scontri diretti (7 a 1 per Roger nell’ultimo lustro, 24 a 16 per Rafa nel complesso) da par suo vinceva altri 8 tornei dello Slam, per testimoniare di quanto fosse energica e ricostituente la spinta reciproca. Quest’ultimo era un paragrafo riassuntivo di Federer e Nadal opposti, divisi da una rete alta grosso modo un metro, eppure riuniti e idealizzati nell’immaginario collettivo, che resta il più potente dei miti, fra fantasia e realtà. Ed erano insieme nell’ultima scena, erano per mano.