La Gazzetta dello Sport

Gigio e Raspa la meg

- Di Andrea Elefante

Millecinqu­ecento è un bel numero, suona bene. E’ un numero (di gol) che parla di una lunga storia, fatta di attaccanti che hanno fatto la storia. Cifre tonde come le loro carriere: Mario Corso (il numero 500), Paolo Rossi (800), Bobo Vieri (1000), Luca Toni (1200). Ieri a segnare il gol numero 1500 della Nazionale è stato Federico Dimarco, uno che fa un altro mestiere. Comunque ogni tanto segna - e neanche poco, consideran­do che dovrebbe occuparsi anzitutto di altro - perché ha un piede affilato e preciso come un coltello, ma di solito lo usa per rasoiare calci piazzati, non per tap in come quello di ieri sera. Che ha ferito a sangue l’Ungheria. Un esterno, non una punta, ma è simbolico pure questo: davanti ci manca qualcosa, ma compensiam­o con tanto altro. E tanto altro ha fatto di Dimarco - prima firma azzurra alla sesta presenza - uno dei migliori della compagnia, anche ieri sera: generosità, corsa, sacrificio.

Decisivo Tutto quello che anche Giacomo Raspadori dà alla Nazionale: lui, ancora lui, ha iniziato a creare l’impasto di questa vittoria e Gigio Donnarumma l’ha conservato: aprendo le sue manone, opponendo piedi, corpo e cuore al disperato tentativo dell’Ungheria di non perdere il suo sogno. Con questa maglia, e forse non solo questa, Gigio non era così decisivo dall’Europeo: almeno quattro miracoli, su Nego, su Adam Szalai, su Syles, addirittur­a sull’involontar­io fuoco amico di Bonucci. Un muro invalicabi­le e nei momenti più delicati della partita, perché i grandi portieri fanno questo: chiudono la porta quando lo spiffero farebbe rischiare la malattia. «Il mio modo di essere non cambia, a volte per noi portieri è dura ma bisogna restare concentrat­i e lavorare al massimo, capire gli errori e cercare di correggers­i. Devo lavorare anche mentalment­e. C’è un nuovo entusiasmo ma il Mondiale è una ferita aperta».

Fenomeno Ieri si rischiava di sprecare la fatica fatta per segnare l’1-0, la firma era la stessa di venerdì a San Siro: Jack Raspadori. Lunedì scorso, giorno in cui l’Italia ha iniziato a inerpicars­i su per la salita di questa doppia sfida di Nations League, ci sentivamo nonostante tutto aggrappati a Ciro Immobile: ancora non lo sapevamo, ma in realtà eravamo già appoggiati sulle spalle di Giacomo Raspadori. Il ragazzo dei tempi giusti. Era un fenomeno nella Primavera del Sassuolo ma è cresciuto lì, nel “suo” campionato, senza salti nel vuoto: la Serie A poteva aspettare i suoi 19 anni, anche se c’è chi la conosce più giovane, e nessuno ha avuto fretta, né lui né il club che poi quando è stato il momento gli ha offerto la casa e le responsabi­lità dove preparare il decollo. Era la carta in più di Mancini, quella che poteva sparigliar­e il mazzo, all’Europeo, ma Jack lo ha vissuto come l’apprendist­a che fa lavoro di bottega, impara il mestiere da chi lo fa da molto più tempo di lui, immagazzin­a conoscenze. Poi è arrivato settembre di un anno fa e Raspadori ha iniziato a scendere dalla tribuna dove si era accomodato per le ultime tre tappe del tour trionfale e a salire nelle gerarchie di Mancini. Sempre cogliendo l’attimo senza rincorrerl­o: il gol contro la Lituania, il primo azzurro, non gli era bastato a giocare poco più di mezzora nelle tre maledette partite del tabù Mondiale, contro Svizzera, Irlanda del Nord e Macedonia, ma la sua epoca stava iniziando. Oggi Mancini, che continua a combattere l’anemia di gol della sua Nazionale, si coccola il giocatore che nelle ultime 15 partite ne ha segnati cinque, con quello di ieri sera: anche questo con i tempi giusti, perché quando ha visto quell’impatto fra Gnonto e Gulacsi Jack, era già lì con il pensiero, e poi ci è arrivato anche con i piedi, per il doppio tocco decisivo. Nessun azzurro ha fatto meglio nel periodo, ed è abbastanza per considerar­lo la miglior immagine possibile di una nuova Italia che sta nascendo: Raspadori la sintetizza benissimo.

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