Giochiamo sempre meglio ma senza italiani in campo
di
Niente Mondiale, ma tre squadre e cinque allenatori italiani negli ottavi di Champions: sono elementi contraddittori per il nostro calcio. Quale indicatore è il più veritiero?
Marco Amistrè
Non ce n’è uno dominante: dobbiamo prenderci il buono e il cattivo. Sul primo versante, in aggiunta ai risultati che lei ha elencato, metterei un elemento ancor più significativo, a mio avviso: il livello del gioco. A parte il caso Juve, che ha fatto del male in primo luogo a se stessa e che, nella versione vista in Coppa, non è più rappresentativa delle migliori tendenze italiane, si sono viste trame di respiro europeo.
Le nostre squadre segnano molto, hanno personalità, in trasferta spesso incantano. Soprattutto aggrediscono, non speculano. Il Napoli è stato da applausi dovunque, come e meglio dell’Atalanta delle passate stagioni. Il Milan ha chiuso il suo girone di qualificazione con due 4-0 nelle partite decisive, l’Inter ha dato spettacolo al Camp Nou e ci provi chi lo ritiene facile.
La squadra italiana tipica, quella dell’equilibrio e che
“aspetta e riparte”, è sempre meno di moda nelle coppe e in Serie A, dove anche squadre medio-piccole puntano sul gioco per difendersi al meglio. Mancini non predica nel deserto e non credo torneremo indietro perché l’evoluzione del calcio va in questa direzione. Il tutto con budget lontanissimi
dai club dominanti in Europa, diversi dei quali ci stanno tecnicamente dietro.
Ma questo evidente miglioramento, e qui cominciano le note dolenti, non poggia ormai più sui giocatori italiani, una specie purtroppo in via di estinzione. Secondo gli ultimi dati
dell’osservatorio svizzero Cies, siamo all’ultimo posto in Europa, staccatissimi, per produzione in proprio di atleti, solo l’8,4% del totale.
Tutti ci guardano dall’alto. I vivai della Premier, tanto per fare un esempio, lanciano in prima squadra il 13,1% di giocatori, la Bundesliga il 13,2, la Ligue 1 il 14,3, per non parlare del siderale 21,7 degli spagnoli. D’altra parte il numero di stranieri nel nostro campionato è del 62%, un livello che ci rende irraggiungibili quasi per tutti e che è salito costantemente negli anni disegnando un grafico demoralizzante, se pensiamo al milione e quattrocentomila tesserati nel nostro Paese: un numero enorme, che non ha quasi sbocchi al vertice della piramide. Morale: facciamo giocare sempre meglio squadre in larghissima parte composte da legioni straniere. Il che è beffardo prima che malinconico. Mi sembra evidente che il problema dei problemi del calcio italiano sia proprio questo: l’esaurimento della spinta dei vivai. Che pure possono fare la differenza anche dal punto di vista economico. Pensate per esempio al Milan, i cui prodotti rinforzano oggi Psg (Donnarumma), Inter (Darmian), Roma (Cristante), Juve (Locatelli). O alla Juve di oggi, con i suoi Miretti e Fagioli. Non sottovaluto certo le problematiche di assetto e la crisi finanziaria del nostro calcio, dissestato anche dagli esiti nefasti della pandemia. Ma la via di uscita, al di là degli auspicati aiuti statali, non può che essere quella di credere molto di più nel prodotto italiano, rinunciando a decine, se non a centinaia, di ingaggi di giocatori da tutto il mondo, che ingrassano intermediari e procuratori e lasciano la desolazione nei settori giovanili. Siamo orgogliosi della nostra scuola e delle nostre tradizioni? Dimostriamolo nei fatti e non lasciamo che i nostri tecnici debbano allenare tutti i giorni in inglese, come sta gradualmente avvenendo.