La Gazzetta dello Sport

Grifo, orgoglio emigr Ante

Dietro i due gol all’Albania la crescita di un giocatore seguito dal c.t. per anni. Un attaccante duttile, mai visto nei nostri club ma con solide radici italiane

- Di Andrea Elefante INVIATO A TIRANA

In questi quattro anni è cambiato solo in campo, e in meglio ovviamente: lì ha decisament­e messo da parte la timidezza, come quasi sempre accade a chi finalmente entra nella sua comfort zone e all’improvviso diventa tutto naturale. Anche giocare il calcio che si ha dentro. A Vincenzo Grifo è successo a Friburgo, dove oggi è padrone di una maglia e segna abbastanza da suscitare il ricordo di un certo Luca Toni, perché in Bundesliga ha già fatto più gol di lui, anche se ovviamente con più tempo a disposizio­ne. Ma c’era un destino color azzurro forte già nascosto nei meandri della sua carriera da molto tempo prima, anno 2013, quando Chicco Evani chiamò nella sua Under 20 quel ragazzo che cercava gloria nell’Hoffenheim. L’altro ieri sera il vice di Mancini, influenzat­o, non era in panchina: chissà che effetto gli ha fatto l’epifania di quel talento in cui aveva visto qualcosa già un sacco di tempo fa. Quando erano vicini i tempi in cui Vincenzo dava ancora una mano nell’officina dello zio, emigrato in Germania come i suoi genitori. E non erano così lontani i tempi in cui i nonni gli compravano al mercato una felpa di Baggio, oppure una maglietta di Pirlo, così grande che gli faceva anche da pigiama.

Tourbillon offensivo Non è servito Evani per convincere il c.t. a fare come lui: il Mancio è allenatore di visioni chiare e a volte incomprens­ibili ai più, ne ha seminate anche lungo il suo percorso di c.t., da Zaniolo convocato senza che avesse messo piede in Serie A a Raspadori nei 23 dell’Europeo; da Gnonto a Ricci e Scalvini - battezzati a vent’anni se non prima - fino al debutto di Pafundi, anni 16 e un po’, e il tempo dirà se ci ha visto lungo anche stavolta. Vincenzo non era un ragazzino quando Mancini lo chiamò per la prima volta: fu nel 2018, aveva già 25 anni ma nell’Hoffenheim giocava e non giocava. E però il c.t. ci aveva visto quel tourbillon di qualità offensive che piacciono a lui: un senza ruolo capace di giocare in quasi tutti i ruoli d’attacco. Da allora non lo ha convocato sempre, lo ha fatto giocare poco, ma senza mai perderlo di vista: né lui, né il suo numero di telefono. Lo ha raccontato proprio il ragazzo: «Anche quando non mi chiamava, mi ha sempre fatto sentire la sua fiducia. E in questo gruppo ho sempre sentito tanto calore». Oggi, dopo la doppietta di Tirana, il suo score in Nazionale recita sette partite, quattro gol e tre assist, ovvero quando i numeri diventano sintesi perfetta: nel caso di Grifo, del suo essere nato trequartis­ta, ma duttile abbastanza da evolversi - non da ieri - in mezzala/esterno offensivo. Come Mancini lo ha utilizzato a Tirana, attore perfetto di un sistema di gioco in evoluzione, che ha bisogno proprio di questo, attaccanti di grande movimento.

Orgoglio azzurro Oggi Grifo fa qualunque cosa, anche interpreta­re questo ruolo, con una convinzion­e e una sicurezza molto diverse rispetto a quando mise timidament­e la testa oltre il cancello di Coverciano la prima volta: stava vivendo quella convocazio­ne come una specie di miraggio, inseguito da sempre, e non sapeva ancora se sarebbe diventato qualcosa di più. Ma nient’altro è cambiato di quel ragazzo umile, gentile, sempre disponibil­e, che sente molto il senso di appartenen­za evocato da quella maglia e invocato spesso da Mancini; l’orgoglio del figlio di emigrati, che fa appendere nel salotto di casa la numero 10 azzurra indossata come in un sogno; la fierezza dell’essere l’unico ad averla infilata senza aver mai giocato in

un club italiano. Nel gruppo lo ricordano ancora in Sardegna, estate 2021, ritiro pre Europeo: uno che si sentiva in famiglia e sapeva starci.

Il prossimo Europeo La lista dei 23 per lui fu speranza e disillusio­ne, ma i due gol di mercoledì sera - se serviva - gli hanno fatto riaprire il file che oggi gli interessa di più, custodito nella cartella “Europeo”. Alla voce mercato ci sono soprattutt­o tracce di ricordi, la Lazio che si interessò a lui quando aveva 18 anni, la Fiorentina nel 2019: ama l’Italia e il calcio italiano, ma oggi a Friburgo sta da dio e la memoria gli ricorda certi cambi di maglia decisi anche per precipitaz­ione, di cui si è pentito. A 29 anni non può più avere fretta, se non per una cosa: convincere Mancini almeno fino al 2024, prossimo Europeo. In Germania, a casa sua.

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