Il Qatar riapre la nostra ferita La storia corre, il calcio frena
L’ultimo atto di un Mondiale resta là, sospeso, nel cuore della Russia. Si è consumato quattro anni fa a Mosca e adesso sembra un po’ surreale. Era il 15 luglio del 2018, una domenica. Si giocava alle 5 del pomeriggio, stesso orario d’inizio del match di domani in Qatar, partita inaugurale del nuovo torneo. Sono volati gli anni, storicamente pare un secolo, calcisticamente sembra ieri. È come se i due binari, che avevano fatto tanta strada assieme, si fossero divisi, allontanati. Il mondo è uscito sconvolto dalla pandemia, uno tsunami che non ha smesso di disegnare piccole onde. Da allora, nonostante tutto, ci siamo moltiplicati. Il pianeta adesso è abitato da otto miliardi di esseri umani, in quattro anni si è aggiunta una quota di oltre 300 milioni di persone, pesante come la popolazione degli Stati Uniti. E poi la guerra in Ucraina, certo.
La finale di Mosca era stata seguita da un miliardo di persone, quel giorno nessuno immaginava che la Russia avrebbe trascinato il mondo in una guerra sanguinosa e strisciante, fino sull’orlo del terzo conflitto mondiale. In Italia, l’inflazione era niente: inchiodata all’uno per cento.
Nelle elezioni politiche del 2018 le urne avevano premiato le posizioni anti-sistema dei pentastellati, come quest’anno quelle dell’estrema destra. Il consenso resta liquido, la
differenza è che, intanto, l’inflazione è salita al 13 per cento, torniamo indietro di mezzo secolo. La finale del Luzhniki, tra Francia e Croazia, offriva una sintesi fedele sull’identità del nostro tempo. In campo avevano vinto i francesi di Deschamps, campioni dell’integrazione e del Melting Pot. Ma poi l’eredità lasciata dal Mondiale, la tendenza segnata
in quei giorni è andata nella direzione opposta. La foto del Consiglio dei ministri di Zagabria – tutti con la maglia della Croazia – scattata prima della finale sembrava fuori dalle righe, un pelo imbarazzante. E invece era avanti: anticipava gli scenari che sono seguiti, con la spinta verso la balcanizzazione dell’Europa, in balìa di sovranismi e interessi nazionali.
Un’altra foto virale, del presidente francese Macron in camicia che esulta dopo uno dei gol dei Bleus, era stata diffusa dall’agenzia Sputnik, quella che segue Vladimir Putin. Il sorriso dello “zar” non poteva mancare nella premiazione, vicino allo stesso Macron che in questi mesi di guerra ha tenuto acceso un canale con Mosca, nello sforzo vano di cucire una prospettiva di pace. La finale vinta (4-2) dai francesi era un Mbappé contro Modric, tuttora simboli delle due nazionali. In realtà il calcio non aveva un padrone assoluto e neanche adesso ce l’ha. Ronaldo aveva appena lasciato il Real per la Juve, ora la sua fuga senza fine prosegue con lo United anche se il tempo sta scadendo. CR7 ha annunciato che se dovesse vincere il Mondiale smetterebbe il giorno dopo. Messi è meno esplicito ma sembra altrettanto determinato. C’è una vecchia guardia che non molla (i Benzema, Lewandowski, Modric, Bale), una nuova generazione che scalpita (i Vinicius, Foden, Joao Felix, Vlahovic, Leao, Pedri, Ansu Fati), e una età di mezzo che vuole cogliere l’attimo (i Neymar, De Bruyne, Sané).
Molte costanti sono rimaste ferme nel calcio. La più ingombrante e dolorosa riguarda l’Italia che mancava in Russia e si è concessa il bis. Una generazione di Millenials sta crescendo senza aver visto gli azzurri in un Mondiale. Un paradosso, visto che la Nazionale di Mancini, campione d’Europa, è sesta al mondo nel ranking Fifa. Ora il Qatar riapre la ferita, ma tutto continua come se niente fosse.
Domani c’è un’amichevole con l’Austria, il nostro calcio non è in grado di ripensarsi davvero. Non basterà l’allargamento da 32 a 48 partecipanti per garantirci la partecipazione al Mondiale del ‘26. Bisogna arrivarci. La lungimiranza di alcuni club che puntano su giovani italiani può aiutare: penso alla Juve che verrà e all’Inter o a un Milan possibile.
Ogni tanto Mancini si rivede in qualche talento sedicenne. Lo lancia e fa bene. Del resto, come suggeriva Gandhi, la vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia. E col mare che c’è, noi per forza si balla.