La Gazzetta dello Sport

TIFO URUGUAY VERO, SELVAGGIO E PIENO DI CUORE

- Di Marco Ciriello

«D

ove c’è uno spazio vuoto, facciamo un campo», ha detto l’altro giorno Edinson Cavani. Nel resto del mondo, invece, dove c’è uno spazio vuoto costruisco­no un palazzo, una banca, un grattaciel­o. E questa verità si è andata a sommare al mio amore per l’Uruguay. Nato fra le pagine di Eduardo Galeano, cresciuto guardando il pallone tra i piedi di Ghiggia e Schiaffino e finito nelle mani di Pepe Mujica, che ho stretto quando una sera di gennaio l’ho conosciuto a Lima. Perché gli uruguagi sono dei fuori posto, stanno sempre dove non dovrebbero stare, si muovono velocement­e. Che poi l’Uruguay sarebbe il mio secondo amore, perché prima viene l’Argentina, che da Maradona a Borges mi ha cambiato la vita, ma questa Argentina è troppo pettinata per essere incoraggia­ta.

Ha già tutto, e il calcio cresce dove non c’è niente. È troppo affine al tempo, non va in controtend­enza, ha il campione più coccolato di sempre – Lionel Messi – e pare non sentire l’assenza di Diego. Quindi Uruguay. Perché piccolo, sporco, forse pure brutto. Ma selvaggio, autentico e perciò vero. Con più tattica delle africane – che pure andrebbero tifate – la lezione di Óscar Tabárez vive nel c.t. Diego Alonso, portatrice di una aggressivi­tà da calcio di strada pur avendo dei giocatori che sono o sono stati nei grandi club europei, che non li hanno cambiati, a riprova di un Dna difficilme­nte corrompibi­le. Basta guardare le loro facce pasolinian­e per capire che sono la pagina dispari nell’album delle figurine del Mondiale. Chi non ricorda il viso da Flavio Bucci di Enzo Francescol­i, che poi aveva i piedi di Ligabue, Antonio non Luciano, il pittore non il cantante, ogni suo tiro era una tigre, una motociclet­ta, un paesaggio, anche dei fiori sulle punizioni. Chi non conosce Obdulio Varela – raccontato dall’argentino Osvaldo Soriano – si sta perdendo la migliore serie tv non fatta sul calcio, capitano dell’Uruguay al Mondiale del 1950 che fece piangere il Brasile in casa. Dirà poi il suo compagno di squadra, Alcides Ghiggia, autore del gol vittoria: «Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã: Frank Sinatra, Giovanni Paolo II e io». Il paradigma dell’Uruguay è quello della squadra scomodissi­ma in campo – un pianoforte in una scala stretta –, una delle poche che conserva il carattere, oggi che le squadre non sembrano averne. Che passa per la Garra Charrúa – di cui Adani si è fatto profeta –: giocare profondame­nte oltre che bene o male. Perché l’Uruguay ha un cuore e un respiro diverso anche quando picchiava Montero o oggi Godin, quando morde Suarez o quando Cavani fa il terzino dopo aver segnato, e se serve Federico Valverde va in porta con Darwin Nunez che marca, forse solo di fare l’arbitro si rifiutereb­bero, perché sarebbe un esercizio di potere per uno stato d’opposizion­e. Un ossimoro, l’Uruguay.

Ha detto Cavani: «Dove c’è uno spazio vuoto noi facciamo un campo»

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Ex Napoli Edinson Cavani, 35 anni, gioca nel Valencia. In Italia ha giocato con Palermo e Napoli.
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