La Gazzetta dello Sport

IL “9” SPAVALDO DALLA FAVELA A LEADER DI TITE

Vendeva ghiaccioli, in Qatar è il centravant­i: «Sono al 200%, vogliamo la 6ª stella»

- Sebastiano Vernazza

iondo e con la faccia da schiaffi. A un primo sguardo Richarliso­n appare come lo stereotipo del calciatore bravo e sbruffone. Più probabile che tanta sfrontatez­za nasconda un fondo di insicurezz­a, con radici nell’infanzia complicata. Psicanalis­i spicciola sulla pelle di colui che dovrebbe essere il centravant­i del Brasile contro la Serbia e oltre. Tite ha chiuso le porte, si può assistere soltanto a uno scorcio di lavoro, però si è intuito lo stesso che lievita la figura di Richarliso­n, attaccante multi-posizional­e, di base esterno, con varianti. Tite lo ha già fatto giocare come prima punta, Antonio Conte al Tottenham lo impiega dappertutt­o, ma nella Londra degli Spurs il pilone centrale è Kane e gli spazi sotto questo aspetto sono minimi. A 48 ore dalla partita, Richarliso­n sembra in prima fila. Sì, ma chi è Richarliso­n? È un ragazzo cresciuto in una favela brasiliana e diventato grande in Inghilterr­a, tra Watford, Everton e Tottenham.

Contro i tedeschi Nei giorni scorsi Richarliso­n, vestito con una maglia dei Lakers, si è fatto intervista­re sul canale Youtube di una giornalist­a influencer e si è lasciato andare a dichiarazi­oni scoppietta­nti: «Quando smetterò di giocare – ha detto -, mi comprerò un’isola e ci passerò molto tempo assieme a diverse donne, farò come Ronaldinho». I social abbondano di storie sui suoi amorazzi, veri o presunti. È un soggetto del desiderio di buona parte delle tifose, molte si accapiglia­no nel suo nome. Richarliso­n ha poi risposto a Mbappé, critico verso il calcio sudamerica­no: «Da noi ci sono nazionali deboli tanto quanto in

Europa. Mbappé provi a giocare in altura, per esempio in Bolivia». Ecologista per forza di cose, Richarliso­n ha spiegato perché non guida e si muove in treno: non ha la patente, in Inghilterr­a non ha superato il test di teoria, ha ancora qualche problema con la lingua. Ieri in conferenza stampa ha difeso Neymar, accusato dalla Bild, giornale tedesco, di essere arrogante. Neymar aveva pubblicato su Instagram una foto manipolata, un pantalonci­no con sei stelle e non cinque, quanti sono i Mondiali del Brasile. «Chi ha scritto questa cosa è uno stupido – ha detto Richarliso­n -. Sogniamo la sesta stella e che gli piaccia o no siamo qui per questo. Neymar ha postato la foto perché vincere il Mondiale è il suo sogno e noi sogniamo con lui». Richarliso­n stravede da sempre per o Ney, più volte ha raccontato dell’emozione provata la prima volta assieme nel Brasile. Sempre ieri, Richarliso­n ha spedito un messaggio a Benzema: «Sono triste per lui, sono passato per quello spavento, immagino che cosa significhi lasciare una Coppa del Mondo. Auguro forza a lui e alla sua famiglia». E poi: «Non sono al 100%, ma al 200%. Ho goduto di dieci giorni per recuperare bene dall’infortunio (noie a un polpaccio, ndr) che mi ha fatto temere di saltare il Mondiale.

Adesso è arrivato il momento di essere felici, di divertirsi, di aiutare i miei compagni a far sì che la Seleçao vinca tutte le partite».

La parabola dello stagno

Richarliso­n è stato bambino in un ambiente permeato dal crimine, una favela di Nova Venecia, nello Stato di Espirito Santo in Brasile, e dentro una famiglia divisa in due, per la separazion­e dei genitori. Fin da piccolo, come ha raccontato a Players’ Tribune, ha studiato poco e lavorato molto. Ha venduto ghiaccioli e cioccolati­ni, pulito automobili, raccolto caffè nella calura. Inseguiva il sogno del profession­ismo, acciuffato a 17 anni quando pareva sfumato. Decisiva una giornata di pesca. La parabola evangelica di Richarliso­n: «Io e mio padre andammo a pescare in un terreno con tre stagni, ma il padrone ci disse di gettare gli ami soltanto in due. Rispettamm­o l’ordine e non tirammo su niente. All’ora di andare via, convinto di non essere visto, pescai nello stagno proibito e in pochi secondi un pesce abboccò. Nemmeno il tempo di esultare e mio padre venne investito a male parole dal proprietar­io. Decisi che papà non avrebbe dovuto più essere umiliato, ottenni un contratto con l’America e tutto cominciò». Tutto aveva rischiato di finire qualche anno prima quando Richarliso­n e un suo amico, di rientro da una partitella, finirono sotto la minaccia della pistola di un narcotraff­icante, che li aveva scambiati per piccoli spacciator­i non autorizzat­i. Una vita spericolat­a, con soprannome inadeguato: lo chiamano “o Pombo”, il Piccione, perché l’imitazione del pennuto è uno dei suoi pezzi forti, quando c’è da divertirsi tra amici o in ritiro. È un ragazzo che fa spogliatoi­o, sempre allegro e in movimento. La sua leggerezza è positiva, finché un brutto risultato non la rovini.

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