La Gazzetta dello Sport

Lucho il duro e puro dalle tragedie ai trionfi senza mezze misure

- Di Giancarlo Dotto

o esta loco, es un genio, titolava ieri il “Marca” a tutta pagina. E se fosse entrambe le cose, pazzo e genio? Non sarebbe il primo della storia del calcio. Si fa largo il sospetto, anche presso i diffidenti cronici del mondo madridista, che nella testa dell’asturiano alberghino lanterne magiche oltre che evidenti paranoie. La sua Spagna ha dato spettacolo al debutto. Furiosa sì, ma anche leggiadra. Lucho e la sua banda di marmocchi, tenuti insieme dalle vecchie pellacce che sappiamo, il compasso di Sergio Busquets, la personalit­à canaglia di Jordi Alba e di Azpilicuet­a, hanno stappato lo spumante.

NSette gol di rara bellezza. Sette, come le partite che Luis Enrique ha detto di essere venuto qui a vincere.

Sfrontato? No, leale. Come sempre. Lucho in panchina non si è vergognato mercoledì sera di mostrarsi per quello che era, un uomo felice. Luis Enrique è questo. Acqua pura, acqua chiara. Un uomo sempre nudo al cospetto delle cose che accadono. Felice, ma non scemo (copyright di Daniele De Rossi, dopo i titoli vinti sulla panchina del Barça: «Avete visto che non era poi così scemo?»). Un uomo estremo, questo sì. Nessuno è felice come è felice lui, nessuno è affranto come è affranto lui. Niente mezze misure, dalle sue parti c’è sempre qualcosa che esonda, lo crivella.

Che gli spacchino da calciatore la faccia con una gomitata, che lo caccino da allenatore tra insulti

e pernacchie o perda un Europeo ai rigori dopo aver dominato in lungo e in largo.

Che gli muoia una figlia di 9 anni, Xana, per un cancro alle ossa. Lui cade, stramazza, ma si rialza sempre e parte per il deserto a pedalare tra le dune e gli scorpioni. Non serba rancori, è amico di Tassotti che gli ha spaccato la faccia, vuole bene alla Roma che lo ha prostrato e ha tifato Italia che lo ha eliminato. Lucho accetta il destino e riparte. Anche quando lo amputa del suo bene più prezioso. Le sue particelle elementari sono comunque protese alla virtù, che nel suo caso è l’etica del desiderio. Andare dove si deve andare. Raccoglie ogni volta i suoi pezzi, l’uomo tutto d’un pezzo, ben sapendo e fregandose­ne che tutto è sabbia tra le dita. Sarà per questo che ama tanto il deserto dove il fachiro che è in lui sa che viene meglio ritemprare l’anima nello stillicidi­o della carne.

Luis Enrique non ha il carisma autoritari­o di un José Mourinho, quello maliardo di un Pep Guardiola

né quello visceralme­nte empatico di un Jurgen

Klopp, piuttosto quello contagioso di un Francesco d’Assisi, quello che arriva (e predica) dall’incorrutti­bile innocenza del cuore. Che lo fa parere tanto onesto e tanto gentile anche quando non mostra miracoli, anche quando sembra aspro, ma è solo ferito. Il carisma speciale di Luis Enrique è in quella tutta sua malinconic­a dedizione all’assoluto. In una pulizia dell’anima magnificam­ente demodé. E refrattari­a alle lusinghe. «Gli elogi indebolisc­ono», ha detto a fine partita. Luis Enrique, splendida anomalia e paranoico di genio. Il Rodri inventato centrale difensivo o l’Asensio finto nove quando tutti aspettavan­o l’ex juventino Morata. Finalmente padrone assoluto con la sua Roja del suo calcio, palla a terra, possesso, destruttur­azione dei ruoli, fraseggio infinito e sintesi alate oltre che micidiali. Una España brutal!, titolano i quotidiani spagnoli.

Non gli era mai capitato, nemmeno negli anni del Barca dove si porta a casa nove titoli,

il totale vinto in carriera, ma rinunciand­o alla sua idea di calcio. Il Lucho negato, l’unico Lucho vincente della

storia? Vincente sì, ma non felice. Facile, commentano i suoi detrattori, non sembrare scemi quando hai davanti quei tre, Messi, Suarez e Neymar, uno sproposita­to buco nero che attira e inghiotte tutto, incluse le eventuali ideuzze di un qualunque Enrique in panchina. Che, infatti, leale com’è, se ne guarda bene dall’inorgoglir­si più di tanto per quei trofei in bacheca, come fossero farina del suo sacco. Prima del Barça, Lucho rischiava ogni volta il baratro per eccesso di visione. Il Barça non gli dato la felicità ma gli ha dato uno status. Ha smesso di essere un apprendist­a stregone buono solo per le periferie del calcio. Doveva solo aspettare l’occasione giusta. «Bisogna avere fede», predica da sempre nel deserto e oggi in quello lussuoso degli emiri.

Un calvario il passaggio a Roma. Che nel tempo Lucho ha imparato ad amare, come tutte le cose che lo hanno aiutato a crescere.

Un (fragile) marziano a Roma. Ridotto a una larva dal massacro di una piazza che sa essere feroce come poche. «Sto male», disse una volta pubblicame­nte e si capì che stava male veramente. Aveva detto: «Voglio dare il gioco alla Roma e la gioia ai suoi tifosi». Non ci riuscì. Se n’è andato per consunzion­e. Invecchiat­o di dieci anni. E fu solo un anno, un anno di troppo. «Che cosa ho fatto di male per meritare tutta questa merda?» disse. Il più struggente, accorato grido di dolore mai udito prima nei postriboli del calcio.

Luis Enrique resta per molti, sempre meno, un allenatore incomprens­ibile, uno dei meno pagati del Mondiale: 1,15 milioni, cinque volte meno di Flick strapazzat­o dai giapponesi e suo prossimo rivale nella sfida dentro o fuori. Ma l’uomo non finisce di stupire. Ha reinventat­o l’agorà nel calcio, la piazza virtuale dove la gente ascolta le parole del leader e si confronta. Tutte le sere Lucho si collega con Twitch, una piattaform­a social, e si apre con tutti in un rapporto senza filtri. L’uomo del deserto e delle spedizioni spirituali s’è inventato una nuova frontiera della comunicazi­one. Un boomerang, se i risultati non dovessero arrivare. Lucho ha la stoffa del kamikaze.

La faccia spaccata, gli insulti gratuiti, la morte della figlia: ogni volta lui si rialza

Leader carismatic­o, discute con i tifosi. E ha una passione per le sfide estreme

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2) In allenament­o ai tempi della Roma. 3) Con la figlia Xanita, morta nel 2019 a 9 anni per un tumore alle ossa
1) Il c.t. della Spagna Luis Enrique , 52 anni, si congratula con i suoi ragazzi dopo il trionfo con la Costa Rica. 2) In allenament­o ai tempi della Roma. 3) Con la figlia Xanita, morta nel 2019 a 9 anni per un tumore alle ossa

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