METTERE IN CAMPO I BABY DEL VIVAIO NON È UN RISCHIO MA UN’OCCASIONE
he Mourinho sia un grande allenatore non c’è dubbio ed è certificato dal suo curriculum straordinario. Che sia un grande comunicatore è dimostrato dalla sua capacità, ogni volta che parla, di aprire un dibattito. Così ha fatto anche dopo la partita con il Genoa, rivelando il contatto con il Portogallo, difendendo Zaniolo, esaltando giustamente le doti superiori di Dybala, criticando aspramente la formula della Coppa Italia.
È sfilata invece un po’ sotto silenzio una frase riferita ai giovani. «Quando gli impegni aumentano, se cambi molto e dai spazio a tanti giovani finisci poi per rischiare». Tutto questo alla fine di una gara in cui tra i migliori c’è stato sicuramente Edoardo Bove. Un centrocampista di grande intelligenza tattica, umile nell’atteggiamento e spregiudicato nell’andare ad attaccare l’avversario, sempre silenzioso e professionale fuori dal campo. E che finora ha avuto poche occasioni per dimostrare il proprio talento. Fermo restando che Mourinho ha dato ampia dimostrazione di lungimiranza, con Felix, Zelensky, Tahirovic e Bove quello che colpisce - nello svolgimento e non riguarda esclusivamente il tecnico portoghese - è considerare i giovani come serbatoio di emergenza e non di prospettiva. Quando c’è la sensazione che dovrebbe essere esattamente il contrario. Puntare sul futuro, pianificando un percorso di crescita, ed eventualmente far ricorso all’esperienza - ai calciatori più maturi - nel momento della difficoltà.
Nel caso di Bove, che abbiamo preso come esempio, verrebbe facile e banale chiedersi: ma siamo sicuri che sia stato giusto metterlo magari dietro a Camara, che è stato acquistato in tutta fretta a fine mercato? Non si potrebbe pensare a questi ragazzi come risorse su cui porre le basi di un autentico progetto? Se ci pensate anche alla Juve è successo qualcosa di simile, con Fagioli e Miretti chiamati in causa solo o soprattutto di fronte a una lunga serie di infortuni. A loro, in un momento particolarmente delicato, è stato chiesto di tenere la squadra in linea di galleggiamento. E lo hanno fatto subito bene, rispondendo perfettamente alle attese. Ma giocatori così, di queste qualità, non meriterebbero di essere considerati potenziali titolari, al pari dei loro concorrenti più maturi? Una situazione analoga si è verificata al Milan,
dove Kalulu è oggi un perno della difesa. Ma se non ci fossero stati problemi a raffica nel pacchetto difensivo rossonero, avrebbe avuto lo stesso spazio o si sarebbe dovuto accontentare di fare una lunga anticamera, perdendo magari tempo prezioso? Invece eccolo lì, a 20 anni Campione d’Italia. Già, 20 anni. Come i 21 anni che compirà tra pochi mesi Bove, per tornare all’esempio iniziale. Un’età in cui si viene ancora considerati bambini. A differenza di quanto succede all’estero, dove a 18 anni - quando si è bravi - si può essere titolari in squadre protagoniste non solo nei vari campionati, ma anche in Champions. E loro lì, in prima fila, senza preoccupazioni: né, come detto, degli interessati e né di chi li manda in campo. Forse bisognerebbe allargare il campo ad altre attività e non solo al calcio. Perché succede spesso che a 30 anni (e oltre) si venga considerati ancora… ragazzi. Con un esercizio estremo e immotivato di prudenza. Come se a fare la differenza - e non c’entra essere giovani o meno non sia sempre e banalmente la qualità.