La Gazzetta dello Sport

Solisti o coristi TROPPE STELLE NEI LAKERS DI LEBRON DENVER VOLA INTORNO A JOKIC

La cessione di Westbrook certifica il fallimento di un modello di squadra con big “egoisti”

- Di Dan Peterson

Russell Westbrook lascia i Los Angeles Lakers! Cosa significa? Prima di tutto: Russell Westbrook, pur avendo un talento atletico incredibil­e e un premio di mvp nella sua bacheca, è, a mio avviso, sopravvalu­tato. O, meglio detto, sopravvalu­tato per vincere un titolo. Il motivo è semplice. È un giocatore che dichiara all’invio dell’anno: «Voglio vincere l’mvp». Già sbagliato in partenza. Una cosa simile non l’hanno mai detto Magic Johnson, Larry Bird o Michael Jordan. Loro pensavano alla squadra. Loro dicevano: «Voglio vincere il titolo quest’anno». Diverso! Seconda cosa: la “chimica” di una squadra dipende da come i pezzi si mettono insieme. Come dicono negli Usa: «Inutile cercare di infilare un palo rotondo in un buco quadrato». Un altro proverbio sportivo negli Usa: «Una squadra può avere un comico nello spogliatoi­o, ma non due». Vuol dire che non si possono avere due galli nello stesso pollaio. Per far sì che funzioni, come i Celtics con Bird, McHale, Parish, o i Lakers con Magic, Kareem e Worthy, bisogna avere gente “giusta”, che punta solo al titolo, al 100% per la squadra, gente che ai premi personali dà un’importanza secondaria.

Giocatore o g.m.

Terza cosa: non si può permettere a un giocatore, pur essendo bravissimo, di avere un ruolo determinan­te nella costruzion­e della squadra. Certo, si può parlare. Quando Chicago stava per prendere Dennis Rodman (l’uomo fuori dalle righe per eccellenza, ma sempre per la squadra prima di ogni cosa), coach Phil Jackson e il g.m. Jerry Krause hanno parlato con Michael Jordan: «Possiamo prendere Rodman. Ti va?». Ok di Jordan, l’hanno preso e hanno vinto tre titoli Nba. In questo caso, doveva essere il g.m. dei Lakers, Rob Pelinka, a chiedere a LeBron l’ok per prendere Westbrook. Non viceversa. I super campioni hanno i loro amici. Non sono imparziali nei giudizi.

Boston aveva Bird, McHale, Parish, i Lakers Jabbar, Magic e Worthy, ma in testa solo la squadra

Ma i club, troppe volte, vogliono accontenta­re il campione nel prendere uno raccomanda­to da lui. Ripeto: la mossa deve partire dal club (g.m. coach, presidente) che chiede un parere: «Secondo te, questo giocatore può farci vincere?». Ecco la domanda da fare. Quarta cosa. Molti g.m. guardano troppo i numeri. A Houston,

Daryl Morey, genio delle statistich­e, ha voluto James Harden. Perché no? I numeri gli davano ragione. Bene, Harden va a Houston e, sotto coach Mike D’Antoni, vince pure l’mvp. Un dettaglio: l’mvp è dato per la stagione regolar, non per i playoff. Morale della favola: mvp in bacheca, Harden ha avuto dei playoff mediocri. Morey doveva dirgli: «Ehi James, sarai valutato per ciò che fa la squadra e non per ciò che fai tu, per cosa facciamo nel playoff, non solo nella stagione regolare». Ecco la formula magica per vincere nell’Nba di oggi: avere tre stelle che possono giocare insieme. Miami l’ha fatto con Wade, LeBron e Chris Bosh. Poi, se hai altri, meglio ancora, come i Celtics del 1986, con cinque oggi nella Hall of Fame: Bird, McHale, Robert Parish, Dennis Johnson e Bill Walton. La politica delle grandi stelle va benissimo. A una condizione: che siano giocatori di squadra e non egoisti che pensano solo a loro minuti, loro tiri, loro punti, loro numeri. Devono essere coristi e non solisti.

L’esempio di Denver

Bisogna essere, però, coerenti quando si indirizza una critica verso i Los Angeles Lakers o i New York Knickerboc­kers. Sono due squadre di grande tradizione nelle due città più importanti negli Stati Uniti. Anzi, non le chiamano sempre città. Le chiamano mercati. Per indicare quanto è importante il giro d’affari in LA e NYK. Non solo. L’esposizion­e ai mass media in questi due centri è asfissiant­e. Un anno i New York Giants del football cercavano un nuovo coach. La stampa chiese al g.m.: «Che tipo di coach state cercando?» Risposta: «Uno che può vincere a New York». Traduzione : le aspettativ­e per queste due squadre sono sempre oltre ogni limite. I Los Angeles Clippers e i Brooklyn Nets non soffrono questa pressione. Quindi il tifoso vuole: 1. il grande colpo, 2. la grande stella, 3. il risultato immediato. Altre squadre possono lavorare diversamen­te. Guardiamo l’opposto della mentalità del grande nome o il grande colpo: i Denver Nuggets, che hanno potuto lavorare con Nikola Jokic con grande pazienza e lui li ha ripagati con due premi mvp e forse un altro quest’anno. Jokic, personaggi­o agli antipodi di LeBron James. Io sono sempre dell’idea che i tifosi e il media delle grandi squadre (vale anche qui in Europa) dovrebbero avere questo tipo di pazienza per aspettare lo sviluppo di un campione o un gruppo di giovani. Ma i media a New York e Los Angeles stroncano tutto con le loro critiche. Allora, i club si sentono di avere l’obbligo di prendere una stella, pur rischiando un fiasco, e di avere il guinzaglio corto con gli allenatori. Hanno la voce grossa. Urlano in radio, in tv, pure con la parola scritta. Sono in dieci, ma danno l’impression­e di essere in mille. Bisogna avere le spalle larghe e un fegato di acciaio per resistere a tutto ciò.

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