DJOKOVIC, IL KOSOVO E I TANTI ATLETI TESTIMONIAL POLITICI
Ci risiamo con Djokovic, dopo i “numeri” per la non vaccinazione anti-Covid: adesso discutibile dichiarazione pro-serbi del Kosovo, un’area esplosiva dei Balcani. Ma 22 Slam vinti gli danno il diritto di arringare il mondo?
Greg Maschi
Rovescerei il quesito: chi e perché può impedire a un uomo libero di esprimere le proprie opinioni nel rispetto delle leggi? Ovviamente non entro nemmeno di striscio nelle tensioni di quell’area e nelle relative cause. Però il tema suggerisce tante vie di approfondimenti e ha qualche lato contraddittorio. Intanto va detto che gli atleti politicizzati e testimonial su argomenti extrasportivi a forte, e talvolta esplosivo, contenuto sociale, sono in costante crescita. Possiamo, con qualche approssimazione, considerare il loro atto di nascita con i celebri pugni guantati di nero e sollevati di Smith e Carlos sul podio dei 200 metri di Città del Messico 1968, per protestare contro le discriminazioni razziali. Più di mezzo secolo dopo, LeBron James, Colin Kaepernick (il primo a inginocchiarsi polemicamente all’inno Usa) o Serena Williams si impegnano sullo stesso tema. Per non parlare delle lotte femministe di Billie Jean King e delle centinaia di atleti orgogliosamente mobilitati a supporto delle loro comunità nazionali, anche quando si trattava di dittature comuniste o fasciste. Oggi, in piena era social network, ogni messaggio viene amplificato, naturalmente in proporzione alla fama di chi lo trasmette. E porta con sé cascate di liquami di odiatori da tastiera, in un processo che nessuno ha nemmeno cominciato a frenare, ammesso che sia possibile. Gli atleti sanno bene a che cosa si espongono e qualcuno sfida apertamente reazioni spesso inascoltabili, pur di affermare le proprie idee. Nel merito, farei qualche distinguo. Esistono vaste aree del vivere comune, valori fondanti della cultura collettiva, che devono essere fuori discussione. Chiunque, per intenderci, si batta contro il razzismo, il terrorismo, il sessismo va ringraziato e sostenuto senza se e senza ma, cercando di fare scudo contro le frange di inciviltà.
Ma gli atleti si esprimono anche su temi molto più divisivi, nei quali discernere il giusto dallo sbagliato, la fake news dall’informazione corretta è un esercizio molto difficile e delicato. Argomenti che non sono liquidabili con un frettoloso giusto-sbagliato, bianco-nero e che spesso si radicano in un’area grigia e paludosa di torti e ragioni. Quei messaggi, chiunque li trasmetta, non si possono condividere (o respingere) a priori soltanto perché il nostro campione preferito se ne impossessa. Libero lui di farlo, naturalmente, ma a noi spetta un giudizio sospeso fino a ricerche molto complesse e attente. Il dato preoccupante a mio avviso è la parte di popolazione che viene investita da queste posizioni: mi riferisco a giovani e giovanissimi che per definizione non possono avere uno spirito critico già formato e informazioni dettagliate sulla tal guerra o su percorsi storici talvolta profondi secoli. Ma un tennista in erba di 10 anni che adora Djokovic, re del suo sport, tende a bersi le parole del suo eroe, anche quando cadono molto al di là del campo da tennis. Questo è l’aspetto più preoccupante, a mio avviso del tutto sottovalutato, da chi parla a milioni di giovani followers, su temi controversi. Il senso di responsabilità e la cautela dovrebbero prevalere.