«Un gol da finimondo E io, vero uomo del sud, nella storia granata »
Quarant’anni fa l’ala segnò nel derby-show con la Juve Il Torino passò da 0-2 a 3-2 in tre minuti e 40 secondi
Da quarant’anni il cross arriva sempre da destra e sempre dal piede dell’olandese Van de Korput. Da quarant’anni Fortunato Torrisi si coordina come un judoka, vede il pallone che si avvicina, pensa “adesso succede” e aspetta il boato del popolo granata. 27 marzo 1983. Torino-Juventus da 0-2 a 3-2. Una rimonta epocale, una sforbiciata iconica, una vertigine di delirio che - 40 anni dopo - ancora incrina di commozione i cuori Toro.
► Cosa accadde quel giorno?
«Il finimondo. Juve avanti 2-0, poi la nostra rimonta. Dossena, Bonesso, Torrisi. In 3 minuti e 40 secondi abbiamo stravolto una storia già scritta. Ricordo quell’azione, Zaccarelli che allarga per Van de Korput, io che mi stacco dalla mischia e aspetto il cross, in allenamento la provavamo sempre, senza avversari».
► Eccolo il segreto: vi riusciva quello schema?
(Ride) «Mai. Nemmeno una volta. Quel gol è bellissimo, frutto di casualità, istinto, destino. Avevo una coordinazione pazzesca, ma anni prima - al Como - mi ero allenato per una stagione intera con il mio amico Paolino Rossi: cross e tiri al volo, fino a sera».
► Come festeggiò quella sera?
«Abitavo in un appartamento sopra la sede della Juve, pensa la beffa. Dissi a mio figlio Matteo di mettere sul giradischi il disco con l’inno del Toro al massimo volume. A un certo punto dal terrazzo sopra al mio venne srotolato uno s t r i s c i o ne : “Grazie Torrisi. Forza Roma”. Avevamo eliminato la Juve dalla corsa scudetto, lo vinse la Roma».
► Ci racconta le sue origini?
«Il giorno che sono nato, a Melito di Porto Salvo in Calabria, mio papà finanziere venne trasferito ad Augusta. Sono cresciuto in Sicilia. Tifosissimo del Milan, Gianni Rivera il mio idolo. A 12 anni mi mandarono a fare un provino a Milanello. Non mi presero, al dirigente che me lo comunicò dissi: ci vediamo in A».
► Sbruffoncello, aveva un sogno.
«A 15 anni ero in D, a 18 in C a Siracusa, a 20 al Como in A. A Como mi davano del malato immaginario. Avevo la pubalgia, mi fecero curare alla schiena. Mi rispedirono in C, a Siracusa. E fu lì che mi promisi che sarei tornato in A».
► Testardo e tenace.
«Come un vero uomo del Sud. Riparto dal basso. Chieti in C, Pistoiese in B. A Pistoia un amico pranoterapeuta un giorno mi fa: “Andrai alla Juventus”. Il giorno dopo mi richiama: “Fortunato, mi sono sbagliato. Nel mio sogno si faceva riferimento a Torino, senza specificare la squadra”. Invece vado ad Ascoli, tre anni bellissimi, una città di 50.000 abitanti che portava allo stadio 20.000 spettatori. Costantino Rozzi presidente con i calzini rossi in panchina e Carlo Mazzone allenatore».
► Che giocatore era?
«Mi sentivo una mezzala, ma mi facevano giocare all’ala: l’ho sempre vissuto come una condanna. Ottima progressione, tanta qualità, destro, sinistro, buon tiro. Ero bello da vedere. Ma non ero un cuor di leone. Se in area volavano gli schiaffi scappavo. Quando correvo sulla fascia avevo paura delle entrate da dietro dei terzini. A quei tempi erano randellate. E Mazzone mi diceva: “Metti li parastinchi che te passa la paura” (Ride). Magari fosse stato così».
«Provavamo quell’azione sempre, senza avversari E non ci riusciva mai...»
«Avevamo eliminato la Juve dalla corsa per lo scudetto, quell’anno lo vinse la Roma»
► A 27 anni si avvera la profezia del suo amico e finisce a Torino.
«Il ds era Luciano Moggi. Gli dico: io firmo, ma mia moglie è romana e se arriva un’offerta da Roma o Lazio mi lasci andare. E lui: che problema c’è? Ci stringiamo la mano, poi succede che dopo quel gol il presidente della Roma Viola fa un’offerta. E sai dove finisco?».
► C’è scritto sull’almanacco: al Catania.
«Non aveva mantenuto la parola. Ci litigai. Potevo andare a giocarmi la Coppa dei Campioni con la Roma, ero finito in una squadra che retrocesse».
► Cosa ha fatto una volta finita la carriera?
«Ho allenato nelle giovanili della Lazio, lanciando tanti ragazzi, da Domizzi a Pinzi, da Pisano a Berrettoni, poi in C e D, Catanzaro, Acireale, Castel di Sangro, Latina; quindi ho aperto una scuola calcio a Roma, chiusa durante il Covid».
► Come passa le sue giornate?
«Collaboro con vari club, faccio dello scouting. Vado a pesca in mare aperto e ho un’officina in casa. Mia moglie è arredatrice, io le do una mano: ho una grande manualità. Ma ero più bravo con i piedi, questo sia chiaro».