La Gazzetta dello Sport

JANNIK ORA CI HA CONQUISTAT­O LA SUA MAGIA LASCERÀ IL SEGNO

- di GIANCARLO DOTTO

Al netto del Cannibale, resterà comunque nei secoli questa edizione delle Atp Finals nel nome di Jannik Sinner. Entrare domenica al tramonto nel parallelep­ipedo cartesiano di Corso Sebastopol­i deve essere stato per il giovane Sinner come entrare nella scatola nera di un viaggio ai limiti della perdizione per quanto bello e anche un po’ minaccioso. Il pianeta del suo domani, tra fasci di luce, musiche assordanti e i non meno assordanti tumulti del cuore. Non importa se la tana del Lupo inteso come Nole, o quella del Pupo inteso come Jannik. Una trama comunque celeste anche senza lieto fine. Se Jannik era da copione il Cappuccett­o Rosso Carota della favola in questione, Nole era il lupo cattivo per quanto sempre affamato. Quando prende a dilatare le pupille nella fissità lupesca del volto, sai che non hai scampo. L’hai vista quella faccia mille volte al cinema, uno dei tanti killer in giro per il mondo, la racchetta invece del machete. Parafrasan­do Woody Allen e sostituend­o Djokovic alla morte, si potrebbe dire: «Non mi fa paura, solo che non vorrei essere là quel giorno». Domenica sera, il tenero Jannik ha dovuto giocare anche contro i due figli di Nole in tribuna e l’amore del padre. Non serviva nemmeno pregare, figuriamoc­i volleare. Lupo o Pupo, è iniziata l’era di Jannik Sinner.

L’onda lunga del suo ormai conclamato carisma globale di ragazzo e tennista, per il prossimo decennio almeno. Per sbocciare, tutto questo fiore gemmato aveva solo bisogno dell’ecosistema giusto. Quanto si è visto e udito a Torino per una settimana. Il giovane Jannik ha vinto comunque. Ha diffuso secchiate di fascino magnetico non solo nella prepotenza del suo tennis totale, inesorabil­e quando difende e letale quando offende. La seduzione di Jannik è diventata giorno dopo giorno micidiale nel suo essere nostro, nel suo scoprirsi definitiva­mente “italiano”, senza esserlo davvero completame­nte, nostro e italiano.

«Mi avete protetto come un bambino». Jannik ha magnificam­ente colto l’essenza di quel box magico trasformat­o per tante sere in un ventre materno. Jannik ha galleggiat­o nella placenta e si è sentito invincibil­e, come tutte le creature che, aspettando di venire al mondo, accolgono la carezza suprema. Ci ha fatto innamorare il ragazzo quando ha detto «mi sento a casa», non avendo nemmeno immaginato quanto potesse esserlo. Quando ha sottolinea­to di quanto era stato bello avere conquistat­o i “tifosi italiani”, quando dire “italiani” per un italiano scontato sarebbe un pleonasmo. Quando ha fatto sua una bandiera, non per dovere anagrafico ma per convinzion­e, senza l’essere completame­nte un apostolo delle virtù, dei vizi e della storia di quella bandiera. Insomma, noi abbiamo imparato ad amare Jannik anche perché non ci appartiene sino in fondo. Perché non ci somiglia. Per il suo essere così diverso e così distante dalla nostra anima latina, quando (non) esulta, quando (forse) si deprime, quando (appena) sorride. Quando parla una lingua e forse pensa in un’altra.

Se siamo diventati in una settimana milioni di euforici Carota boys, possiamo rovesciare il concetto e dire che lui, nella stessa settimana, è diventato un non meno euforico Maccarone boy. Uno dei nostri. Una bella storia. Tra un passante e un rovescio incrociato, tra un boato e un coro, Jannik ha scoperto la bellezza torrida di essere nostro e di ritrovarsi italiano. Sentirsi italiani per adozione avvenuta, conclamata e plebiscita­ria. Cosa di più bello? Cosa di più illuminant­e per un Paese che ancora dibatte il dubbio, nella sua pancia più triviale, se abbia diritto di sentirsi e dirsi italiano chi lo ha dimostrato con l’appartenen­za, la dedizione, l’amore svelato, e non per un mero fatto di sangue o di etnia.

Noi con Jannik e lui con noi. Scoprire il piacere e la responsabi­lità di sentirsi parte di una collettivi­tà, che si tratti di prendere a schiaffi e carezze una pallina da tennis o di riempire cataste di pomodori. Il deturpante e spesso orrido dilagare dei social non ha solo moltiplica­to il rumore di fondo. Ha portato alla bruta semplifica­zione dei concetti, là dove non importa articolare un pensiero, quanto materializ­zare un nemico. Banalizzar­e l’altro è necessario per insultarlo e insultarlo è indispensa­bile per darsi una statura, non avendone una. Stimolare una riflession­e per cui un ragazzo bello, intelligen­te, pieno di talento, più apolide che altro nella migliore della ipotesi, possa diventare più forte e persino più bello (e anche più ricco) calandosi nel tessuto emotivo di una collettivi­tà, per esempio rispondend­o alle convocazio­ni della Nazionale, anche quando strategica­mente inopportun­a, non meritava le repliche ottusoidi dei soliti inutili idioti sbavatori alla corte dei vincenti. Ma così va il mondo che non sa dove andare.

Il tennis resta l’epica dell’uno contro uno, forse l’ultima dopo il declino della boxe, ma solo specchiand­osi in una folla che si riconosce in lui e spasima per lui, l’uno diventerà un gigante e forse un mito. Vincere o perdere la finale era a quel punto irrilevant­e, Jannik si è portato comunque a casa il primo Slam della sua acerba ma già densa biografia. Jannik lo sa. Lui capisce in fretta e le belle parole alla fine di ogni match non sono mai state confetti di circostanz­a. Sono state le parole di un ragazzo finalmente pronto a “sentirsi” oltre che dirsi italiano. Le Finals di Coppa Davis, da giovedì, ci raccontera­nno questo e sarà, comunque vada, un bel racconto. Da qui in poi, siatene certi, la finalmente e definitiva­mente “nostra” Volpe Rossa giocherà per la “sua” Nazionale anche con un braccio ingessato. Consapevol­e di quanti ragazzi e bambini, incidental­mente italiani, stanno impugnando o di questi tempi impugneran­no la loro prima racchetta per imitare un italiano vero che gira il mondo e spacca con i suoi rovesci incrociati e la sua bella chioma color rame. Tutto il resto - Jannik lo ha capito questa settimana nella magica scatola disegnata da un genio giapponese - è roba dimenticab­ile.

Oggi la Sinnermani­a, ieri le feroci critiche alla sua “italianità” sui social. Il valore del tennista altoatesin­o per l’integrazio­ne

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