IL CUORE PER L’INTER IN THURAM SI RIVEDE LO SPIRITO DI ETO’O
Èuna dote ricca quella che ha portato con sé Thuram. Come la sua azione in campo, la sua forza si diffonde dappertutto. Ha cresciuto la credibilità dell’Inter, rafforzando la vocazione della dirigenza, che con lui ha sbrigato un’operazione in genesi quasi ovvia (la chiamata a parametro zero, un mercato decisivo per la situazione societaria) e poi l’ha consolidata e magnificata facendosi con Thuram scudo davanti alle inquietudini di Lukaku, percependo in fretta (insieme all’allenatore) di poter azzardare un rimescolamento delle gerarchie, con Thuram che da terzo uomo diventa già in estate il titolare “scelto”. Con lui, poi - questo fatto va evidenziato ogni volta, ha un suo valore - si è proseguita la ricerca del “linguaggio” comune, nel senso proprio del termine: Thuram è nato e cresciuto in Italia, dov’è rimasto fino ai 9 anni. Oltre ai sei azzurri in squadra, il discorso vale anche per Asllani (nato in Albania ma in Italia da quando aveva due anni, infatti parla “toscano”). Poi altri titolari come Calhanoglu e Lautaro hanno ormai confidenza con usi, lingua e costumi: insomma, Thuram s’è incastrato perfettamente nel “blocco”.
Poi c’è la duttilità tattica e agonistica del calciatore che in campo può sdoppiarsi fra i due ruoli dell’attacco dell’Inter: la lotta e la profondità del centravanti classico, il lavoro sul fronte e verso gli altri della seconda punta di perpetuo movimento, concedendo la zona centrale al maggior “convertitore” del campionato: Lautaro. Infine, c’è il sentimento che crea senso di appartenenza, legame fra il popolo intorno alla squadra e i giocatori: gli atleti che consumano tutto quello che hanno, che esprimono tutte le loro emozioni, che difendono un valore al di sopra della qualità della prestazione provocano questo senso aperto, fertile, decisivo. Thuram si è messo a disposizione in modo pieno: dell’allenatore (insieme agli altri, sublimando l’idea di gioco) e dei tifosi, assicurando loro il coraggio, l’applicazione e ricevendo di conseguenza affetto (anche se poi servono le giocate per stringere questi patti mai detti, e il gol nel derby, quel destro a girare fortissimo sotto l’incrocio alla sinistra di Maignan è sicuramente stato importante in questa storia). Serve sempre il cuore e serve sempre un gol, anche ai campioni: servì anche a Samuel Eto’o, un giocatore al quale viene naturale accostare l’idolo di oggi proprio se cerchiamo quel senso, se abbiamo capito quel senso, qual finire sottopelle a una squadra, a uno stadio. Premettiamo una verità: l’altro, il camerunese, fu fuoriclasse. E lo fu in tempi in cui la Serie A era bazzicata dai Palloni d’oro, alla fine del decennio che portò tre Champions - e nell’ultima, appunto, c’era anche lui, che fece l’esterno, lasciando il centro dell’attacco a Milito, e il riposo in campo a Sneijder, facendo girare così tanto quelle gambe, senza risparmiarle per i numeri da diventare un termine di paragone: quando qualche calciatore “fuoriesce” per abnegazione dalla parte, facendola più grossa, più commovente, più umile, ecco, “ricorda Eto’o”. Che poi è uno spasso ascoltar Esteban Cambiasso che puntella la storia: «Fece il terzino tre partite, ma le ha vendute benissimo….». (Ma niente al confronto della narrazione di sé dello stesso Eto’o, che si sentiva almeno pari a Messi ai tempi di Barcellona: rileggetevi un pezzo di Luca Taidelli su queste pagine, per i 40 anni di Samuel). Era un’Internazionale (vera) di campioni, di personalità, di leader che anche nel ricordo lottano per la parte. Quella di oggi (meno forte,
Duttile, ben integrato e sempre al servizio della squadra. Il francese ci ricorda il camerunese dei tempi del Triplete
meno competitiva ma con vette di armonia e di gioco superiori per impressione) è più una cooperativa dove ogni socio accetta di investire la sua fatica e il suo talento che insieme, raggruppato, è diventato un tesoro: per certi aspetti, una lezione. Ma in ogni storia riuscita bisogna collocare le persone giuste nei ruoli giusti, trovare in ogni pagina una virtù e qualcuno che la incarna e la impone, e altri che la minacciano, sconfitti. Thuram ha preso quel posto e lo esalta proprio quando (come contro il Cagliari) può rimettersi al centro, in assenza di Lautaro, con Sanchez che lo assiste e lui che segna, come a dire: potrei fare anche questo, ma serve altro, serve di più (o serve meno, dipende dall’ego). Anche Eto’o ne segnò 37 (trentasette, sissignori) l’anno dopo il Triplete, quando Milito fu condizionato dagli infortuni e il camerunese si mise al centro dell’attacco. Eppure fu la disponibilità dell’anno precedente a lasciarlo intatto, conservarlo, imprimerlo in modo indelebile nell’immaginario del popolo nerazzurro. Forse è un moto misterioso, forse le vittorie creano beniamini ed eroi. Sicuramente è un vissuto, un “essere”, un “dare”, sono dunque verbi basilari, fondamentali a costruire un legame profondissimo, un esempio, un passato mitico da ricercare negli uomini (migliori) di oggi. «Ricorda Eto’o», e poi - per caratteristiche - magari gli somiglia davvero poco, eppure lo ricorda e allora basta così, è successo qualcosa, è entrato dentro la sua gente perché in fondo ricordare viene dal latino re-cordis, ripassare dalle parti del cuore (questa è di Galeano).