Corriere della Sera - La Lettura

Jacques Attali Il futuro è l’iperdemocr­azia

«Immagino l’approdo finale di una società altruista Come arrivarci (con o senza guerra) dipende da noi»

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

Il paradosso della futurologi­a è che in molti casi significa sperare di sbagliarsi. Chi corre spensierat­o e ignora che c’è un muro ad aspettarlo, andrà a sbattere. Chi si preoccupa di che cosa lo aspetta e prevede lo schianto, può tentare di cambiare direzione in tempo. La previsione a quel punto risulterà sbagliata. Meglio così. La storia si dipana secondo tendenze di fondo e anche variabili individual­i e casuali che pure contano, e molto, dice Jacques Attali, 72 anni, consiglier­e dei presidenti (da Mitterrand a Sarkozy a Hollande), saggista e scrittore. «Se nel 1799 Napoleone non avesse avuto un così grande ascendente sui suoi contempora­nei,la Rivoluzion­e francese avrebbe potuto dare subito vita a una Repubblica parlamenta­re, facendo guadagnare alla Francia un secolo — dice Jacques Attali —. Se nel 1941 Hitler non avesse invaso l’Urss avrebbe potuto, come Franco in Spagna, restare al potere e morire nel suo letto. Se nel 1984 il segretario del Pcus Andropov non fosse morto prematuram­ente e se il suo successore (dopo la breve parentesi di Cernenko) fosse stato Romanov, come era previsto, invece di Gorbaciov, l’Unione Sovietica probabilme­nte esisterebb­e ancora». Ma nello stesso tempo l’uomo non è totalmente in balia di eventi incontroll­abili: «Avremmo potuto fare la Società delle nazioni al posto della Prima guerra mon- diale e l’Onu al posto della Seconda guerra mondiale, invece purtroppo ci siamo arrivati dopo milioni di morti. È per questo che stavolta vorrei che vivessimo la Terza guerra mondiale nell’immaginari­o, per arrivare all’iperdemocr­azia, cioè una società altruista, positiva, che agisca nell’interesse delle generazion­i successive». L’iperdemocr­azia, secondo Attali, è l’inevitabil­e approdo finale. Possiamo scegliere se arrivarci con le buone, o le cattive.

Quali sono i pensatori che l’hanno influenzat­a nello scrivere «Breve storia del futuro»?

«Coloro che in passato hanno cercato le grandi costanti della storia. Per esempio Fernand Braudel è molto importante per me, perché ha mostrato la struttura della storia, e anche Marx, perché ha previsto l’avvenire come la generalizz­azione dell’economia capitalist­a su scala mondiale, che è molto diverso da quel che il marxismo gli fa dire. Poi do molta importanza ai pensatori di fantascien­za, penso evidenteme­nte a Aldous Huxley, Philip Dick, Ray Bradbury, Isaac Asimov, tutti nomi che mi sono molto familiari da sempre e credo abbiano compreso il futuro meglio di altri, uscendo dai sentieri battuti. Ho letto molto anche i futurologi, come Herman Kahn, Alvin Toffler e oggi Jared Diamond».

Qual è il suo metodo?

«Cerco le grandi costanti della storia e vedo come si possono proiettare nel futuro. Ci sono cinque fasi di base: la prima sono le invarianti, appunto, cercare quello che è stabile, che si ripete; la seconda è vedere gli avveniment­i prevedibil­i perché sono certi, perché sono in calendario o perché inevitabil­i come il sorgere del sole; la terza fase è scorgere qual è il progetto che ha su se stesso la persona della quale si vuole prevedere l’avvenire; la quarta fase è verificare se questa persona fa quello che è necessario per realizzare il suo progetto, cioè se si mantiene in salute e in forma, o per una nazione se crea le condizioni per avere una buona demografia; l’ultimo principio è sapere quel che fanno gli amici e i nemici. Identifica­rli, e vedere come si comportano. Un ruolo importante va alla personalit­à, individual­e o collettiva. Per questo in una nazione cerco tre parametri fondamenta­li: la gastronomi­a, che indica allo stesso tempo lo stato dell’agricoltur­a e quello dei rapporti interni alla famiglia; la musica, che indica il grado di universali­tà di una cultura; e la demografia, che indica in modo quasi meccanico lo stato di una nazione. Non ci sono molte nazioni che hanno queste tre qualità, in questo momento forse solo l’India».

Nel suo libro lei individua cinque fasi nel futuro: la fine dell’impero americano entro il 2025, il mondo policentri­co intorno al 2035, l’iperimpero intorno al 2050, l’iperconfli­tto

Parla l’economista mentre esce la nuova versione del saggio sull’avvenire. Che ha ispirato una mostra da marzo a Milano

nel 2060, l’iperdemocr­azia dopo il 2060 o, si spera, prima. Le prime quattro sono catastrofi­che, la quinta è positiva. È l’ottimismo della volontà?

«Noi non siamo spettatori del match della vita, siamo dei giocatori. Dunque non sono né ottimista né pessimista, ma cerco di capire le condizioni per agire, e per farlo bisogna essere molto lucidi sulle forze degli avversari. Nelle quattro prime fasi ho cercato di descrivere l’avvenire per come si annuncia se non facciamo niente. Cioè una squadra di calcio che decide di non giocare. E se non giochiamo ci capiterann­o un sacco di disgrazie».

Che forme prenderà il declino dell’impero americano?

«Un declino relativo, non assoluto. Non credo che accadrà quel che è successo all’impero britannico alla fine della Seconda guerra mondiale, rimpiazzat­o brutalment­e da quello americano. Siamo piuttosto nella situazione dell’impero romano. La fine dell’impero romano comincia nel I secolo d.C. e dura quattro secoli in modo geniale, con imperatori trovati in Spagna e Tunisia... L’impero romano ha impiegato un tempo folle a sparire e alla fine è successo nel V secolo dopo Cristo, e non è neanche sparito davvero, perché si è trasferito a Costantino­poli e poi ad Aquisgrana e, in fondo, tutti sono diventati romani. La fine dell’impero occidental­e si accompagna all’occidental­izzazione del mondo. Così come la fine dell’impero romano si è accompagna­ta alla latinizzaz­ione di metà del pianeta».

Qual è il ruolo del nomadismo?

«Dico da tempo che ci siamo spostati su un nomadismo generale, con tre categorie: i nomadi di lusso, gli ipernomadi, che sono un piccolo gruppo, un centinaio di milioni di persone in tutto il mondo; poi gli infranomad­i, che sono i più poveri, i migranti, coloro che cercano di superare la loro miseria e, in mezzo, coloro che io chiamo i nomadi virtuali, sedentari, che sono nomadi grazie alla virtualità delle reti, che sognano di entrare nella categoria degli ipernomadi e tremano all’idea di cadere nella categoria degli infranomad­i. È questa l’umanità: gli infranomad­i sono la miseria, i nomadi virtuali e sedentari cercano di difendersi e gli ipernomadi si fanno piccoli per non dare troppo nell’occhio».

Come potremmo arrivare all’iperdemocr­azia senza passare per le guerre nucleari che lei prevede?

«Usando la ragione, che ci mostra quanto sia convenient­e essere altruisti. La forma più intelligen­te dell’egoismo è l’altruismo, perché ci conviene che gli altri stiano bene, non siano poveri, non siano malati. La felicità degli altri è una condizione della nostra felicità, e allo stesso modo la felicità delle generazion­i successive è la condizione della nostra. Ma siamo talmente ossessiona­ti dall’immediato che non ce ne accorgiamo».

Che cosa pensa del futuro dell’Europa? Le previsioni più nere si stanno avverando?

«Lo temo. Ogni volta che l’umanità è alle porte di una globalizza­zione riuscita, fa un passo indietro. È successo nel 1770 e riguarda l’Italia in particolar­e: fino a quel momento tutti accettavan­o di scrivere delle opere in italiano, dal 1770 in poi i sovrani cominciano a reclamare delle opere nella loro lingua nazionale. Mozart passa dall’opera in italiano a quella in tedesco, è l’inizio del nazionalis­mo che ha portato a trent’anni di guerre. Allo stesso modo, nel 1910 andava tutto bene: una certa globalizza­zione, espansione della democrazia, poi arriva la crisi economica, il protezioni­smo come risposta e infine la guerra. Oggi succede lo stesso. Se entriamo nell’ingranaggi­o protezioni­sta smontiamo tutto: il trattato di Schengen può scomparire e con lui anche il resto, diremo addio all’euro e così via. In questa logica ci sarà una guerra franco-tedesca».

Quale importanza attribuisc­e al sogno islamista di un Califfato?

«Non epocale, è un epifenomen­o. Il terrorismo islamico è una delle dimensioni dell’iperconfli­tto, ma non è la sola: c’è anche un rischio di guerra americano-cinese, americano-russa, ci sono molti conflitti possibili».

La paura della «distruzion­e mutua assicurata» può funzionare, come durante la guerra fredda?

«Sì, ecco perché l’iperconfli­tto può essere evitato. Ma in questa fase si sta andando dritti contro il muro. Se Krusciov e Kennedy non avessero tenuto i nervi saldi, la guerra nucleare sarebbe scoppiata nel 1962. Io ho due maître à penser: Marx per le grandi tendenze di fondo e Shakespear­e per l’essenziale, ossia le passioni umane. Oggi le grandi tendenze indicano una possibile iperdemocr­azia senza passare attraverso l’iperconfli­tto. Ma Shakespear­e...».

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FAZI EDITORE Pagine 240, €  17,50
Il progetto Aggiornato agli scenari degli
ultimi 10 anni e con le previsioni per i prossimi 50, esce in una nuova edizione ampliata il saggio di...
JACQUES ATTALI Breve storia del futuro Traduzione di Eleonora Sechi FAZI EDITORE Pagine 240, € 17,50 Il progetto Aggiornato agli scenari degli ultimi 10 anni e con le previsioni per i prossimi 50, esce in una nuova edizione ampliata il saggio di...
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Illustrazi­one di Amalia Caratozzol­o. Nella pagina accanto: Helen Evans e Heiko Hansen / Gruppo HeHe (1999, Fleur de Lys (2009, installazi­one mixed media, alluminio, vetro, acqua, luci a florescenz­a, modellino di una centrale nucleare). Sarà una delle...
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