Corriere della Sera - La Lettura
Jacques Attali Il futuro è l’iperdemocrazia
«Immagino l’approdo finale di una società altruista Come arrivarci (con o senza guerra) dipende da noi»
Il paradosso della futurologia è che in molti casi significa sperare di sbagliarsi. Chi corre spensierato e ignora che c’è un muro ad aspettarlo, andrà a sbattere. Chi si preoccupa di che cosa lo aspetta e prevede lo schianto, può tentare di cambiare direzione in tempo. La previsione a quel punto risulterà sbagliata. Meglio così. La storia si dipana secondo tendenze di fondo e anche variabili individuali e casuali che pure contano, e molto, dice Jacques Attali, 72 anni, consigliere dei presidenti (da Mitterrand a Sarkozy a Hollande), saggista e scrittore. «Se nel 1799 Napoleone non avesse avuto un così grande ascendente sui suoi contemporanei,la Rivoluzione francese avrebbe potuto dare subito vita a una Repubblica parlamentare, facendo guadagnare alla Francia un secolo — dice Jacques Attali —. Se nel 1941 Hitler non avesse invaso l’Urss avrebbe potuto, come Franco in Spagna, restare al potere e morire nel suo letto. Se nel 1984 il segretario del Pcus Andropov non fosse morto prematuramente e se il suo successore (dopo la breve parentesi di Cernenko) fosse stato Romanov, come era previsto, invece di Gorbaciov, l’Unione Sovietica probabilmente esisterebbe ancora». Ma nello stesso tempo l’uomo non è totalmente in balia di eventi incontrollabili: «Avremmo potuto fare la Società delle nazioni al posto della Prima guerra mon- diale e l’Onu al posto della Seconda guerra mondiale, invece purtroppo ci siamo arrivati dopo milioni di morti. È per questo che stavolta vorrei che vivessimo la Terza guerra mondiale nell’immaginario, per arrivare all’iperdemocrazia, cioè una società altruista, positiva, che agisca nell’interesse delle generazioni successive». L’iperdemocrazia, secondo Attali, è l’inevitabile approdo finale. Possiamo scegliere se arrivarci con le buone, o le cattive.
Quali sono i pensatori che l’hanno influenzata nello scrivere «Breve storia del futuro»?
«Coloro che in passato hanno cercato le grandi costanti della storia. Per esempio Fernand Braudel è molto importante per me, perché ha mostrato la struttura della storia, e anche Marx, perché ha previsto l’avvenire come la generalizzazione dell’economia capitalista su scala mondiale, che è molto diverso da quel che il marxismo gli fa dire. Poi do molta importanza ai pensatori di fantascienza, penso evidentemente a Aldous Huxley, Philip Dick, Ray Bradbury, Isaac Asimov, tutti nomi che mi sono molto familiari da sempre e credo abbiano compreso il futuro meglio di altri, uscendo dai sentieri battuti. Ho letto molto anche i futurologi, come Herman Kahn, Alvin Toffler e oggi Jared Diamond».
Qual è il suo metodo?
«Cerco le grandi costanti della storia e vedo come si possono proiettare nel futuro. Ci sono cinque fasi di base: la prima sono le invarianti, appunto, cercare quello che è stabile, che si ripete; la seconda è vedere gli avvenimenti prevedibili perché sono certi, perché sono in calendario o perché inevitabili come il sorgere del sole; la terza fase è scorgere qual è il progetto che ha su se stesso la persona della quale si vuole prevedere l’avvenire; la quarta fase è verificare se questa persona fa quello che è necessario per realizzare il suo progetto, cioè se si mantiene in salute e in forma, o per una nazione se crea le condizioni per avere una buona demografia; l’ultimo principio è sapere quel che fanno gli amici e i nemici. Identificarli, e vedere come si comportano. Un ruolo importante va alla personalità, individuale o collettiva. Per questo in una nazione cerco tre parametri fondamentali: la gastronomia, che indica allo stesso tempo lo stato dell’agricoltura e quello dei rapporti interni alla famiglia; la musica, che indica il grado di universalità di una cultura; e la demografia, che indica in modo quasi meccanico lo stato di una nazione. Non ci sono molte nazioni che hanno queste tre qualità, in questo momento forse solo l’India».
Nel suo libro lei individua cinque fasi nel futuro: la fine dell’impero americano entro il 2025, il mondo policentrico intorno al 2035, l’iperimpero intorno al 2050, l’iperconflitto
Parla l’economista mentre esce la nuova versione del saggio sull’avvenire. Che ha ispirato una mostra da marzo a Milano
nel 2060, l’iperdemocrazia dopo il 2060 o, si spera, prima. Le prime quattro sono catastrofiche, la quinta è positiva. È l’ottimismo della volontà?
«Noi non siamo spettatori del match della vita, siamo dei giocatori. Dunque non sono né ottimista né pessimista, ma cerco di capire le condizioni per agire, e per farlo bisogna essere molto lucidi sulle forze degli avversari. Nelle quattro prime fasi ho cercato di descrivere l’avvenire per come si annuncia se non facciamo niente. Cioè una squadra di calcio che decide di non giocare. E se non giochiamo ci capiteranno un sacco di disgrazie».
Che forme prenderà il declino dell’impero americano?
«Un declino relativo, non assoluto. Non credo che accadrà quel che è successo all’impero britannico alla fine della Seconda guerra mondiale, rimpiazzato brutalmente da quello americano. Siamo piuttosto nella situazione dell’impero romano. La fine dell’impero romano comincia nel I secolo d.C. e dura quattro secoli in modo geniale, con imperatori trovati in Spagna e Tunisia... L’impero romano ha impiegato un tempo folle a sparire e alla fine è successo nel V secolo dopo Cristo, e non è neanche sparito davvero, perché si è trasferito a Costantinopoli e poi ad Aquisgrana e, in fondo, tutti sono diventati romani. La fine dell’impero occidentale si accompagna all’occidentalizzazione del mondo. Così come la fine dell’impero romano si è accompagnata alla latinizzazione di metà del pianeta».
Qual è il ruolo del nomadismo?
«Dico da tempo che ci siamo spostati su un nomadismo generale, con tre categorie: i nomadi di lusso, gli ipernomadi, che sono un piccolo gruppo, un centinaio di milioni di persone in tutto il mondo; poi gli infranomadi, che sono i più poveri, i migranti, coloro che cercano di superare la loro miseria e, in mezzo, coloro che io chiamo i nomadi virtuali, sedentari, che sono nomadi grazie alla virtualità delle reti, che sognano di entrare nella categoria degli ipernomadi e tremano all’idea di cadere nella categoria degli infranomadi. È questa l’umanità: gli infranomadi sono la miseria, i nomadi virtuali e sedentari cercano di difendersi e gli ipernomadi si fanno piccoli per non dare troppo nell’occhio».
Come potremmo arrivare all’iperdemocrazia senza passare per le guerre nucleari che lei prevede?
«Usando la ragione, che ci mostra quanto sia conveniente essere altruisti. La forma più intelligente dell’egoismo è l’altruismo, perché ci conviene che gli altri stiano bene, non siano poveri, non siano malati. La felicità degli altri è una condizione della nostra felicità, e allo stesso modo la felicità delle generazioni successive è la condizione della nostra. Ma siamo talmente ossessionati dall’immediato che non ce ne accorgiamo».
Che cosa pensa del futuro dell’Europa? Le previsioni più nere si stanno avverando?
«Lo temo. Ogni volta che l’umanità è alle porte di una globalizzazione riuscita, fa un passo indietro. È successo nel 1770 e riguarda l’Italia in particolare: fino a quel momento tutti accettavano di scrivere delle opere in italiano, dal 1770 in poi i sovrani cominciano a reclamare delle opere nella loro lingua nazionale. Mozart passa dall’opera in italiano a quella in tedesco, è l’inizio del nazionalismo che ha portato a trent’anni di guerre. Allo stesso modo, nel 1910 andava tutto bene: una certa globalizzazione, espansione della democrazia, poi arriva la crisi economica, il protezionismo come risposta e infine la guerra. Oggi succede lo stesso. Se entriamo nell’ingranaggio protezionista smontiamo tutto: il trattato di Schengen può scomparire e con lui anche il resto, diremo addio all’euro e così via. In questa logica ci sarà una guerra franco-tedesca».
Quale importanza attribuisce al sogno islamista di un Califfato?
«Non epocale, è un epifenomeno. Il terrorismo islamico è una delle dimensioni dell’iperconflitto, ma non è la sola: c’è anche un rischio di guerra americano-cinese, americano-russa, ci sono molti conflitti possibili».
La paura della «distruzione mutua assicurata» può funzionare, come durante la guerra fredda?
«Sì, ecco perché l’iperconflitto può essere evitato. Ma in questa fase si sta andando dritti contro il muro. Se Krusciov e Kennedy non avessero tenuto i nervi saldi, la guerra nucleare sarebbe scoppiata nel 1962. Io ho due maître à penser: Marx per le grandi tendenze di fondo e Shakespeare per l’essenziale, ossia le passioni umane. Oggi le grandi tendenze indicano una possibile iperdemocrazia senza passare attraverso l’iperconflitto. Ma Shakespeare...».