Corriere della Sera - La Lettura
Wagner sovverte Wagner antisemitismo compreso
Con l’attacco all’«ebraizzazione» dell’arte aprì un’epoca buia Ma le sue opere, specie il «Parsifal», scardinano l’ideologia
«Non posso ascoltare troppo Wagner! Già sento l’impulso a occupare la Polonia…». La battuta di Woody Allen, nel film Misterioso omicidio a Manhattan, compendia con ironia mordace la questione dibattuta da decenni intorno a Richard Wagner e alla sua musica. Nessun altro artista ha commosso tanto le folle, nessun altro è stato tanto odiato. Già a proposito della Prima guerra mondiale il grande comparatista francese Georges Dumézil scriveva: «I nomi wagneriani, la musica wagneriana hanno animato i combattenti tedeschi dal 1914 al 1918, nell’ora del sacrificio e del crollo ancor più che in quella del trionfo. Il Terzo Reich non ha avuto bisogno di crearsi i suoi miti fondativi».
Wagner sì, Wagner no. In Germania il Festival di Bayreuth, dedicato esclusivamente all’opera di Wagner, costituisce uno degli apici della vita culturale e vanta tra gli ospiti abituali la cancelliera Angela Merkel. In Israele un bando di fatto ha vietato a lungo l’esecuzione pubblica della musica di Wagner. Nel luglio del 2001 il direttore d’orchestra Daniel Barenboim, ebreo argentino, ha aggirato l’interdizione proponendo al pubblico sorpreso un brano tratto da Tristano e Isotta non previsto nel programma. Non sono mancate le polemiche. Da allora, però, il tabù ha cominciato a cadere. Proprio in Israele, però, le emozioni sono forti, gli animi divisi. Il regista Udi Aloni ricorda che quando un gruppo culturale di giovani, di cui faceva parte, annunciò provocatoriamente sui giornali la proiezione, nel loro club, della versione filmica integrale del Ring, moltissimi anziani si presentarono all’appuntamento. Per loro la musica di Wagner rappresentava ben più dell’uso che i nazisti ne avevano fatto.
Il «caso» Wagner non si è, dunque, mai chiuso. In che modo l’antisemitismo influisce sul suo pensiero, in che forma pesa sulla sua musica? Se lo chiede Leonardo Distaso nella premessa all’edizione italiana del saggio di Wagner Il giudaismo nella musica, appena pubblicato da Mimesis. Si tratta del «più clamoroso e influente dei suoi scritti», come osservò Léon Poliakov, lo storico dell’antisemitismo. Wagner lo pubblicò nel 1850, protetto da uno pseudonimo. La traduzione italiana uscì molti anni dopo, nel 1897, in una rivista specialistica di musicologia. Non ebbe, perciò, diffusione. Ecco perché l’edizione curata da Distaso, dove sono contenute anche le considerazioni che, in forma di lettera alla contessa Marie Muchanoff Nesselrode, Wagner aggiunse nel 1869, è un contributo importante che colma effettivamente una lacuna. Distaso punta, anzi, l’indice contro la cultura italiana, che per 119 anni non ha ritenuto di dover ri- flettere su questo scritto: vuoi perché non lo giudicava indispensabile per comprendere la musica di Wagner (eppure è un saggio sulla musica!), vuoi perché ha cercato di occultare quest’ombra della sua personalità, vuoi perché ha imboccato la facile via della separazione tra arte e vita. Ma in quest’ultimo caso Wagner stesso non sarebbe stato d’accordo.
Al termine del volume Distaso ricostruisce il contesto storico in cui, mentre l’antisemitismo di Wagner assume contorni sempre più precisi, maturano le sue scelte artistiche. La ricostruzione aiuta il lettore a districarsi nella complessa trama dell’autobiografia di Wagner e a trovare soprattutto il nesso che lega la sua musica alla sua filosofia della storia e al suo progetto politico. In tal senso la tesi sposata da Distaso è chiara: l’antisemitismo è strettamente legato sia alla nuova forma mitico-religiosa del «dramma totale», che l’artista riceve dall’ispirazione del popolo, il vero inventore, limitandosi a esprimerlo e rappresentarlo, sia al tentativo compiuto da Wagner per destare a nuova vita la saga germanica dei Nibelunghi. Il popolo tedesco e la sua arte vengono proiettati «lassù, in alto, sopra tutti gli altri e sopra ogni cosa… über alles ». Con la sua musica Wagner lancia un appello ai tedeschi affinché escano dalla secolare apatia e riscoprano la loro identità di stirpe. Scaturisce da qui il suo antisemitismo, che non può essere semplicemente considerato — come ha fatto lo studioso americano Jacob Katz — la «parte più oscura del genio».
Restano, però, molti dubbi. E sarebbe forse auspicabile anche in Italia un’edizione critica come quella, di quasi quattrocento pagine, pubblicata da Pierre-André Taguieff in Francia nel 2012, dove sono compresi altri scritti di Wagner e dove viene ripercorso, in tutta la sua complessità, l’acceso dibattito intorno al «caso» Wagner dalla metà dell’Ottocento ai nostri gi or ni . Cer to , a ve va r a gi one Adorno, quando scriveva che «l’antisemitismo wagneriano riassume in sé tutti gli ingredienti dell’antisemitismo successivo». Sotto molti aspetti Das Judenthum in der Musik (che sarebbe stato forse meglio tradurre L’ebraismo nella musica) costituisce l’atto di nascita dell’antisemitismo moderno. Basti pensare al termine di nuovo conio Verjüdung, con cui Wagner indica quella «ebraizzazione» dell’arte moderna da cui tedeschi, e europei, devono emanciparsi. «L’ebraismo è la cattiva coscienza della civiltà moderna» — conclude perentorio, inaugurando un tema che sarà ripreso da molti, anche da Heidegger. Sebbene Wagner eviti di menzionarne il nome, il suo bersaglio è il compositore Giacomo Meyerbeer, un tempo suo mecenate; esplicitamente viene invece chiamato in causa Felix MendelssohnBartholdy. Entrambi per lui impersonano,
Un testo cruciale La nuova edizione italiana del suo intervento contro Felix Mendelssohn è un contributo importante che colma una grave lacuna
Il pregiudizio Sostiene che l’ebreo saprebbe solo imitare, ma non creare, perché non è radicato in una comunità storico-nazionale
ciascuno a suo modo, la sterilità artistica degli ebrei, attestano la decadenza del gusto musicale dell’epoca. Al contrario del tedesco, l’ebreo saprebbe solo imitare, non creare. Perché non è radicato in una comunità storico-nazionale ed è esponente del cosmopolitismo moderno. Un musicista ebreo non può avere, per Wagner, né originalità né interiorità. Mendelssohn-Bartholdy è l’archetipo di questo formalismo che riduce la composizione a un vuoto gioco di suoni senza contenuto. Perciò lo contrappone a Beethoven.
In un saggio del 1944 Thomas Mann, dopo aver confessato di essere sempre ancora commosso nell’ascoltarne le note, ha scritto che la musica di Wagner è stata «creata e rivolta contro tutta la civiltà umanistico-borghese». Senza dubbio. Ma come immaginare l’Europa senza Wagner? Giustamente Slavoj Žižek, al termine del suo libro Variazioni Wagner (Asterios), osserva: «Se c’è un evento culturale nel quale, al giorno d’oggi, la tradizione europea si condensa e si incarna, questo è Bayreuth». E paragona la musica di Wagner alla tragedia greca e alla poesia di Shakespeare. Programmatico è il titolo della prima parte del suo libro: Perché
dobbiamo salvare Richard Wagner. Žižek non è solo; la sua posizione è in gran parte condivisa da Alain Badiou che, a sua volta, ha pubblicato Cinque lezioni sul «caso»
Wagner (Asterios). È possibile, dopo aver assunto l’antisemitismo in tutta la sua gravità, continuare a gioire della musica di Wagner? La risposta è sì! — dice Žižek. Non perché la musica «redima» l’uomo. Ma il punto è che il contesto storico, a cui si richiama una vecchia lettura, ideologica e critica, non basta più. Questo tema è stato, peraltro, ripreso da Roger Scruton nel suo recente libro su Wagner, di stampo fortemente conservatore. Certo lo storicismo, in cui sembra dibattersi ancora Enrico Fubini, nel suo pur notevole saggio Wagner e la rivoluzione, trascura del tutto il fatto che l’opera dei grandi artisti spesso tradisce il loro progetto originario. È quel che accade a Wagner. E Nietzsche, il suo grande critico, lo aveva capito. Come non pensare al Parsi
fal, l’ultimo dramma, messo in scena nel 1882? Qui il protagonista, quasi lasciandosi alle spalle il legame fraterno e elitario del Graal, si apre a una nuova comunità. Visione dell’impasse, in cui l’Europa è finita, il capolavoro di Wagner è al contempo una risposta che mette radicalmente in discussione il potere. La musica non risponde a proclami politici e teorie estetiche; anzi, nel tessuto stesso dell’opera, li rovescia. La sua grandezza sta in questa sovversione.