Corriere della Sera - La Lettura
Il rumore della Rete distrae il narratore
I narratori non sanno raccontare internet Verrà un Joyce 2.0, ma bisogna aspettare
L’impatto nocivo dei social network (e del web in generale) sulla creatività e sulla disciplina che la sostiene. Se ne parla al festival di Camogli
Una sera, all’inizio dell’estate, mi sono ritrovato a cena in un ristor ante dell a costa adri at i ca. La grande sala, semivuota, trasmetteva la tristezza tipica dei ristoranti turistici sorpresi fuori stagione. Oltre a me c’era soltanto una coppia, una ragazza sulla trentina in compagnia di un uomo più vecchio. Poiché non avevo molto a cui prestare attenzione ho teso l’orecchio al loro litigio: era punteggiato di insulti vividi e ruotava intorno a certe recriminazioni classiche da parte della ragazza (mi trascuri, fai il cascamorto con le altre). L’aspetto curioso, tuttavia, era che nessuna di queste accuse riguardava episodi che i due avevano vissuto insieme: l’epicentro dello scontro era Facebook. La ragazza rinfacciava all’amante le amicizie che concedeva con leggerezza eccessiva, i post piccanti, i troppi Mi Piace, come se la condotta di lui sul social fosse uno specchio fedele di quella autentica. Anzi, come se la sua condotta su Facebook fosse più autentica ancora di quella autentica.
È il genere di mondo che abitiamo oggi: un qualche stato intermedio fra il terrestre e il virtuale (dire «tra il reale e virtuale» non suona più così convincente). C’è chi si trova bene e chi non è ancora del tutto a suo agio, ma poco cambia. La Rete ci avviluppa e nulla suscita più parole a proposito di sé della Rete stessa. Siamo arrivati al punto di valutare il peso degli eventi in funzione dell’importanza che internet attribuisce loro, proprio come i due amanti al ristorante. Quello che in principio era un mezzo è diventato infine anche lo scopo. Non c’è filosofia di vita che sfugga, non c’è relazione che non ne sia infettata né mestiere rimasto indenne.
Hyperscrittori
Anche i lettori e gli scrittori, due categorie per lo più refrattarie ai cambiamenti, sono chiamate a fare i conti con la tecnologia che trasforma tutto. Ma, a eccezione dei romanzi di fantascienza e di pochi altri casi isolati, la letteratura non è mai stata il luogo del futuribile. In quanto territorio dominato dalla memoria, si trova più a suo agio nel passato.
Agli inizi del Novecento, quando il telefono si stava diffondendo, gli scrittori insistevano nel menzionare all’interno dei loro testi il telegrafo elettrico. Anzi, «a livello letterario l’avvento del telefono sembrò rinvigorire l’interesse nei confronti del telegrafo» (Gabriele Balbi, Squilli di
carta, Franco Angeli, 2007), come se gli autori volessero a tutti i costi difendere lo strumento tradizionale dal nuovo che minacciava di soppiantarlo. Quasi un secolo dopo, ormai digerita la telefonia «fissa», una resistenza simile veniva opposta dagli scrittori alla telefonia mobile. Anche la televisione ha creato parecchia preoccupazione, ed è facile immaginare che lo stesso sia accaduto per ogni mezzo che abbia modificato drasticamente il modo di comunicare. Per quale motivo? Forse perché, come afferma Jacques Le Goff, «gli uomini si servono delle macchine che inventano conservando la mentalità dell’epoca precedente a queste macchine».
Insomma, saremo sempre un po’ troppo vecchi per raccontare il mondo tecnologico che abitiamo. Per la maggioranza degli scrittori quest’impotenza congenita si manifesta in riserve di carattere estetico. La scrittura letteraria ha in sé la vocazione di avvicinarsi quanto più le è concesso alla realtà, mantenendosi tuttavia impercettibilmente al di sopra di essa, depurandola dei suoi aspetti banali o deteriori: quando fatichiamo a includere un aspetto del presente in un racconto è perché, da qualche parte della nostra coscienza, lo avvertiamo ancora come un elemento corrivo, esteticamente «brutto» della nostra quotidianità. Non gli siamo abbastanza assuefatti.
In tal senso, è indubbio che il grande grattacapo narrativo dell’oggi è rappresentato dalle evoluzioni della Rete. Non mi pare troppo interessante soffermarmi qui su quanto l’accesso a un’informazione globale abbia alterato il nostro modo di pensare, e quindi di scrivere, perché se n’è già parlato diffusamente. È senz’altro vero che i romanzi recenti beneficiano spesso della vastità di tale informazione e che in pochissimi (nessuno?) riusciremmo ormai a concepire questo mestiere senza la stampella perpetua di Google e Wikipedia, ma tutto ciò è accaduto, per così dire, «passivamente», senza che ce ne accorgessimo o quasi.
Ciò che mi sembra poco risolto, invece, è se le molteplici ramificazioni della Rete siano state o meno incluse «attivamente», e con piena soddisfazione, nella prosa letteraria. Sappiamo bene quanto nell’ultimo decennio il web sia diventato pervasivo: Facebook, Twitter, Amazon, Uber... ognuno ha sovvertito in un lampo le regole dell’ambito nel quale è andato a inserirsi, regole che prima di allora si erano evolute con lentezza geologica. Naturale, perciò, che anche i narratori più svelti si siano trovati in affanno e che gli altri siano andati decisamente nel panico. C’è chi ha ignorato le novità come se non esistessero (personaggi anacronistici che perseverano nel compi l a re le t te re a mano a l pos to di mandare email...), chi ha invece scelto l’escamotage della retrodatazione. Soltanto pochi spavaldi hanno provato ad affrontare la mutazione a viso aperto. Dave Eggers ha ambientato i suoi ultimi due romanzi — Ologramma per il re e Il cerchio — nel mondo della tecnologia digitale. Nel 2012 Jennifer Egan ha pubblicato sulla piattaforma Twitter del «New Yorker» un racconto intitolato Scatola
nera, a colpi di 140 caratteri per volta. E qualcun altro ha cercato di rendere internet addirittura costitutivo del meccanismo di narrazione: la
hypertext fi c t i on, ad esempio, consente di espandere la fruizione di una storia attraverso dei link, creando una specie di «lettura aumentata». Ma i romanzi di Eggers sono in fin dei conti tradizionali, il tentativo di Egan è stato un gioco divertente e scaltro, non certo un’aggiunta fondamentale al corpus letterario dell’Occidente, e la hypertext fiction, a scapito di chi giurava che avrebbe sotterrato i libri tradizionali, si è rivelata un flop.
Ovviamente si possono trovare innumerevoli altri esempi, romanzi nei quali uno o più aspetti della Rete siano stati incorporati, ma è assai arduo trovarne uno che si misuri davvero con il cambiamento dei linguaggi mantenendo intatto il proprio valore artistico. Io non ne ho trovato nessuno. Ogni volta che all’interno di un roman-