Corriere della Sera - La Lettura

Le buone cose di semplice gusto

Contempora­nei Claudio Damiani abbraccia uno stile che rifugge oscurità e sterili virtuosism­i. In «Cieli celesti» sembra piuttosto guardare al dettato piano del «Cantico delle Creature»

- di ROBERTO GALAVERNI CLAUDIO DAMIANI Cieli celesti FAZI Pagine 176, € 18

Chi non conosce la poesia di Claudio Damiani potrebbe rimanere sorpreso, meglio ancora spiazzato leggendone anche solo qualche verso. Da ben più di un secolo, ormai, la poesia ci ha abituato a un certo tipo di disorienta­mento dovuto a oscurità di dettato, sensi e sovra-sensi riposti, complicazi­oni espressive e intellettu­ali. E questo genere di difficoltà ha finito per diventare in qualche misura prevedibil­e, un’abitudine, appunto. Che dire allora a fronte di versi come questi, che si trovano giusto in apertura di Cieli celesti (Fazi), la nuova raccolta poetica di Damiani: «Riverso sul lettino in terrazzo/ guardo il cielo azzurro,/ azzurro di un azzurro fitto,/ pieno, come più mani di azzurro./ Come siete lontani stelle e pianeti/ dell’universo, quando potremo mai incontrarc­i»... Non c’è dubbio: questo discorso poetico così semplice, cordiale, aperto, questo procedere facile facile, apparentem­ente non problemati­co, costituisc­ono di per sé un caso, un problema.

Va detto subito, allora, che questa poesia non manca di un radicament­o e di riferiment­i ben determinat­i. Damiani sente vicina la saggezza di Orazio e l’occhio ceruleo del fanciullin­o di Pascoli, ama Petrarca, Leopardi e Caproni, legge con ammirazion­e i poeti della grande tradizione cinese, e più in particolar­e può essere considerat­o prossimo — in questo caso si dovrebbe dire: fraterno — a quella linea o possibilit­à di poesia del Novecento definita come creaturale, e che per sommi capi può essere ricondotta al Cantico delle Cre

ature di Francesco d’Assisi. «Caro Sole, tu ogni giorno», si trova del resto anche qui. Dal punto di vista programmat­ico, di poetica, va poi ricordato come Damiani si sia mosso dapprima in sintonia con alcuni compagni di strada, con cui a Roma all’inizio degli anni Ottanta ha dato vita alla rivista «Braci», che si rifaceva anzitutto alle scaturigin­i romanze della nostra tradizione in nome di un lingua poetica limpida, casta, rugiadosa (via e lontano dalle fumosità espressive di tanta parte del decennio precedente, dunque). Questo solo per dire della precisa intenziona­lità da cui muovono questi versi: la pacatezza, la benevolenz­a, il candore, la letizia, rappresent­ano insieme una scelta e una conquista, e come tali sono pienamente responsabi­li. «C’era un prato verde verde/ con cielo azzurro e sole,/ aria fredda e erba verde e grassa»...

E proprio da uno di quei fraticelli della poesia, Beppe Salvia, che per molti è stato il più poeticamen­te dotato del gruppo (si è tolto la vita nel 1985), è tratto il titolo del libro, Cieli celesti, appunto. Il richiamo a Salvia, a cui appartengo­no anche i versi posti in epigrafe, appare come il segno della rinnovata fedeltà di Damiani alle proprie origini di poeta. Non che questa sia mai venuta meno, no, ma rispetto alle raccolte più recenti qui l’intonazion­e della voce, l’orientamen­to tematico, la temperatur­a stessa del discorso poetico, riprendono direttamen­te l’antico filo. Là erano i luoghi oraziani della Sabina — il laghetto Fraturno, la fons Bandusia, il monte Soratte, il sogno o la visione dell’armonia del creato — qui, dove pure il dialogo con il monte prediletto torna più volte, è piuttosto la meditazion­e su una simile possibilit­à. Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettend­o anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico forse di poca fede, sulla sua plausibili­tà.

Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzial­mente gli stessi: elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettant­o basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino. E lo fa con il suo tipico procedimen­to antigerarc­hico, cioè con un discorso poetico ricco di congiunzio­ni ( e... e... e...) e parco di aggettivi, che preferisce la coordinazi­one alla subordinaz­ione, e si avvale spesso della personific­azione, dei diminutivi, dei dialoghi, delle domande. Tutte le cose sullo stesso piano, insomma.

A cavallo tra contemplaz­ione e celebrazio­ne, l’approdo ultimo di questa poesia sta nel riconoscim­ento della sacertà dell’essere e della misteriosa eppure evidente giustizia della natura. Il suo modo più proprio, si potrebbe anche dire il cuore del suo cuore, è non a caso la forma dell’ode, in una zona inevitabil­mente prossima alla tautologia: «E tutto quello che è qui, è qui,/ è come se tutto fosse/ come deve essere/ e non può essere altrimenti,/ ognuno sta al suo posto/ e non può cambiare niente». Ma a questo si deve affiancare la particolar­e inclinazio­ne ragionativ­a di cui si è detto, che della poesia della lode sembra costituire qui la premessa e insieme la giustifica­zione. Si possono trovare, al riguardo, anche un dialoghett­o didascalic­o e un’intervista in prosa. Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocrati­ca: fissità e mutamento, il senso (detto anche come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individual­e e le ere, il retaggio antropolog­ico e soprattutt­o il tempo, che costituisc­e il filo conduttore del libro.

Come sempre accade quando si mostra al suo meglio, la voce bianca di Damiani si muove su un crinale sottilissi­mo, perché lo spazio che le è dato è estremamen­te fragile e arrischiat­o. Lo diciamo pensando che A mia moglie di Saba sia una poesia più estrema della più arrischiat­a tra le poesie delle tante avanguardi­e. In tal senso anche la poesia di Damiani, il suo stile più semplice del semplice possiede un suo estremismo, perché si spinge fino al punto limite tra semplicità e semplifica­zione, tra giustizia e cecità, tra saggezza e resa. È proprio quello il suo piccolo regno, la sua sola, precisissi­ma nota, che però non può annettersi territori e sonorità diverse. «Lasciare che sia» ha comunque un prezzo.

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