Corriere della Sera - La Lettura
Le buone cose di semplice gusto
Contemporanei Claudio Damiani abbraccia uno stile che rifugge oscurità e sterili virtuosismi. In «Cieli celesti» sembra piuttosto guardare al dettato piano del «Cantico delle Creature»
Chi non conosce la poesia di Claudio Damiani potrebbe rimanere sorpreso, meglio ancora spiazzato leggendone anche solo qualche verso. Da ben più di un secolo, ormai, la poesia ci ha abituato a un certo tipo di disorientamento dovuto a oscurità di dettato, sensi e sovra-sensi riposti, complicazioni espressive e intellettuali. E questo genere di difficoltà ha finito per diventare in qualche misura prevedibile, un’abitudine, appunto. Che dire allora a fronte di versi come questi, che si trovano giusto in apertura di Cieli celesti (Fazi), la nuova raccolta poetica di Damiani: «Riverso sul lettino in terrazzo/ guardo il cielo azzurro,/ azzurro di un azzurro fitto,/ pieno, come più mani di azzurro./ Come siete lontani stelle e pianeti/ dell’universo, quando potremo mai incontrarci»... Non c’è dubbio: questo discorso poetico così semplice, cordiale, aperto, questo procedere facile facile, apparentemente non problematico, costituiscono di per sé un caso, un problema.
Va detto subito, allora, che questa poesia non manca di un radicamento e di riferimenti ben determinati. Damiani sente vicina la saggezza di Orazio e l’occhio ceruleo del fanciullino di Pascoli, ama Petrarca, Leopardi e Caproni, legge con ammirazione i poeti della grande tradizione cinese, e più in particolare può essere considerato prossimo — in questo caso si dovrebbe dire: fraterno — a quella linea o possibilità di poesia del Novecento definita come creaturale, e che per sommi capi può essere ricondotta al Cantico delle Cre
ature di Francesco d’Assisi. «Caro Sole, tu ogni giorno», si trova del resto anche qui. Dal punto di vista programmatico, di poetica, va poi ricordato come Damiani si sia mosso dapprima in sintonia con alcuni compagni di strada, con cui a Roma all’inizio degli anni Ottanta ha dato vita alla rivista «Braci», che si rifaceva anzitutto alle scaturigini romanze della nostra tradizione in nome di un lingua poetica limpida, casta, rugiadosa (via e lontano dalle fumosità espressive di tanta parte del decennio precedente, dunque). Questo solo per dire della precisa intenzionalità da cui muovono questi versi: la pacatezza, la benevolenza, il candore, la letizia, rappresentano insieme una scelta e una conquista, e come tali sono pienamente responsabili. «C’era un prato verde verde/ con cielo azzurro e sole,/ aria fredda e erba verde e grassa»...
E proprio da uno di quei fraticelli della poesia, Beppe Salvia, che per molti è stato il più poeticamente dotato del gruppo (si è tolto la vita nel 1985), è tratto il titolo del libro, Cieli celesti, appunto. Il richiamo a Salvia, a cui appartengono anche i versi posti in epigrafe, appare come il segno della rinnovata fedeltà di Damiani alle proprie origini di poeta. Non che questa sia mai venuta meno, no, ma rispetto alle raccolte più recenti qui l’intonazione della voce, l’orientamento tematico, la temperatura stessa del discorso poetico, riprendono direttamente l’antico filo. Là erano i luoghi oraziani della Sabina — il laghetto Fraturno, la fons Bandusia, il monte Soratte, il sogno o la visione dell’armonia del creato — qui, dove pure il dialogo con il monte prediletto torna più volte, è piuttosto la meditazione su una simile possibilità. Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettendo anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico forse di poca fede, sulla sua plausibilità.
Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzialmente gli stessi: elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettanto basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino. E lo fa con il suo tipico procedimento antigerarchico, cioè con un discorso poetico ricco di congiunzioni ( e... e... e...) e parco di aggettivi, che preferisce la coordinazione alla subordinazione, e si avvale spesso della personificazione, dei diminutivi, dei dialoghi, delle domande. Tutte le cose sullo stesso piano, insomma.
A cavallo tra contemplazione e celebrazione, l’approdo ultimo di questa poesia sta nel riconoscimento della sacertà dell’essere e della misteriosa eppure evidente giustizia della natura. Il suo modo più proprio, si potrebbe anche dire il cuore del suo cuore, è non a caso la forma dell’ode, in una zona inevitabilmente prossima alla tautologia: «E tutto quello che è qui, è qui,/ è come se tutto fosse/ come deve essere/ e non può essere altrimenti,/ ognuno sta al suo posto/ e non può cambiare niente». Ma a questo si deve affiancare la particolare inclinazione ragionativa di cui si è detto, che della poesia della lode sembra costituire qui la premessa e insieme la giustificazione. Si possono trovare, al riguardo, anche un dialoghetto didascalico e un’intervista in prosa. Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocratica: fissità e mutamento, il senso (detto anche come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individuale e le ere, il retaggio antropologico e soprattutto il tempo, che costituisce il filo conduttore del libro.
Come sempre accade quando si mostra al suo meglio, la voce bianca di Damiani si muove su un crinale sottilissimo, perché lo spazio che le è dato è estremamente fragile e arrischiato. Lo diciamo pensando che A mia moglie di Saba sia una poesia più estrema della più arrischiata tra le poesie delle tante avanguardie. In tal senso anche la poesia di Damiani, il suo stile più semplice del semplice possiede un suo estremismo, perché si spinge fino al punto limite tra semplicità e semplificazione, tra giustizia e cecità, tra saggezza e resa. È proprio quello il suo piccolo regno, la sua sola, precisissima nota, che però non può annettersi territori e sonorità diverse. «Lasciare che sia» ha comunque un prezzo.