Corriere della Sera - La Lettura
L’elefante della diseguaglianza
La curva di Milanovic dimostra che la globalizzazione ha favorito gli abitanti dei Paesi in via di sviluppo. Invece le classi medie occidentali ci hanno rimesso, al contrario dei ceti più ricchi
Se i cinesi potessero votare per tenere in equilibrio e in continuità i sistemi politici occidentali, il gioco sarebbe fatto. E avremmo una classica situazione da cui tutti guadagnano. Sono infatti loro i veri vincitori della globalizzazione, sono stati i cittadini della Repubblica popolare che hanno incassato il dividendo più generoso dall’allargamento del mondo, dall’intensificarsi degli scambi e dalla riduzione delle barriere. Il guaio è che in parallelo le classi medie occidentali hanno subito una retrocessione ed è questo movimento all’indietro che, sommato ad altre componenti — l’immigrazione in primis —, sta condizionando pesantemente i risultati elettorali ad Ovest, in quasi tutti i Paesi. La verità è che i flussi dell’economia sono diventati via via più integrati/ globali e scoppia la contraddizione con i mercati politico-elettorali, che invece sono rimasti rigidamente nazionali. Ed è un rebus che per ora non trova soluzione.
In questa chiave può risultare di grande utilità l’immagine che ormai tutti hanno preso a chiamare «l’elefante di Milanovic» e che pubblichiamo corredata da una ricca legenda. Si tratta di un grafico elaborato qualche tempo fa, ma sempre attuale perché mette in relazione la crescita globale del reddito e la sua distribuzione a Est e a Ovest. Branko Milanovic è un serbo-americano, ex capo economista della Banca mondiale. Ora insegna alla City University di New York ed è considerato tra i massimi studiosi di disuguaglianza. Si dichiara amante del calcio — che tra le sue passioni viene subito dopo la disuguaglianza, la politica e la storia — e nei giorni scorsi ha tributato su Twitter il suo omaggio a Claudio Ranieri («Was always a gentleman») appena licenziato dal Leicester. Milanovic considera le politiche blairiane della «terza via» una variante della destra, se non addirittura una versione annacquata del thatcherismo, stigmatizza le sinistre incapaci di offrire sbocchi alle crescenti contraddizioni sociali (in passato loro materia prima), ricorda come non molti anni fa fosse ben difficile ottenere qualsiasi finanziamento per ricerche sulla disuguaglianza e sostiene, infine, che il dibattito in materia adesso è rifiorito per il mutamento del clima politico, ma anche perché si hanno a disposizione molti più dati.
Il suo elefante ci mostra come a usufruire del massimo incremento di ricchezza siano stati gli abitanti dei Paesi emergenti, in primissimo luogo i cinesi, e ci illustra altre due evidenze: il declino delle classi medie dei Paesi sviluppati e il boom dei guadagni per la ristrettissima élite globale. Per Pietro Ichino, che ha pubblicato e commentato il grafico nel suo sito, l’elefante «mostra come Barack Obama abbia ragione: chi si batte per l’uguaglianza e l’equità del genere umano non può combattere la globalizzazione». Ma — e c’è lo spazio di un ma piuttosto ingombrante — la parte bassa della proboscide sottintende il ristagnare o la flessione del reddito di almeno un terzo della classe media occidentale, «donde quell’ansia e senso di insicurezza che ha contagiato anche qualcuno che quella riduzione drastica non l’ha sofferta, ma teme di finire tra i perdenti».
In realtà c’è una forte asimmetria tra i due fenomeni. Chi tiene veramente al superamento delle disuguaglianze e ne fa quasi un principio etico, non negoziabile, dovrebbe essere più che soddisfatto: il dorso dell’elefante lo dovrebbe rassicurare sul fatto che sono centinaia di milioni i poveri che, non solo in Cina, hanno visto migliorare le proprie condizioni di vita, a cominciare dai contadini che si sono lasciati alle spalle le campagne e si sono inurbati. Lo storico balzo in avanti di cui sono stati protagonisti nemmeno dal punto di vista meramente quantitativo è paragonabile al declino dei ceti medi dell’Ovest, la cui esistenza «era comunque relativamente pro- spera» (chiosa di Milanovic). È l’incrocio fatale, già accennato, con i mercati politici nazionali e i loro equilibri terremotati dalla globalizzazione che rovescia proporzioni e valori e mette in copertina il forgotten man che ha votato Donald Trump.
Facciamo adesso un salto a Davos allo storico discorso di fine gennaio di Xi Jinping, che ha colto l’occasione per ereditare la bandiera della globalizzazione dagli americani e presentarsi come l’alfiere del mondo largo che rifiuta protezionismi e barriere. Il numero uno di Pechino ha presentato la mondializzazione come una grande operazione di redistribuzione della ricchezza e circa gli effetti collaterali generati in Occidente ha implicitamente sostenuto che sono figli dei nostri errori. «Voi», ci ha detto, «non siete stati capaci di conciliare "efficienza ed equità" e avete subìto l’egemonia del capitale finanziario, sacrificando il benessere delle vostre classi medie sull’altare non del benessere dei contadini del mio Paese, bensì dell’1% degli straricchi». Qualcosa del genere l’aveva già scritta Milanovic, sostenendo che «quando Reagan e Thatcher costruivano il consenso per la svolta neoliberale non lo facevano certo spiegando che quelle politiche avrebbero arricchito i poveri cinesi, e che i lavoratori inglesi o americani nel frattempo avrebbero perso il proprio lavoro».
Ha ragione Xi Jinping con il suo schiaffo di Davos,ovv erose-avete-perso-è-colpavostra-e-no n-mia? Secondo Andrea Gol dstein, economista e autore del libro Capitalismo rosso( Università Bocconi Editore ), senza voler assolvere le leadership occidentali(e mondare i loro errori) il numero uno di Pechino non ha raccontato tutta la storia. «Finora la Cina si è comportata come un free rider che aveva campo libero grazie alle liberalizzazioni dell’Occidente, ma da loro è ancora difficile operare per gli industriali stranieri, interi settori sono rimasti chiusi e protetti e purtroppo gli indicatori degli osservatori internazionali segnalano una tendenza al peggioramento». Da vincitore della globalizzazione, Xi Jinping a Davos avrebbe dovuto offrire all’Ovest una sorta di indennizzo: «Più libertà economica in Cina come contributo alla crescita dell’Occidente e alla sua stabilità». Questa scelta non c’è stata e la classe dirigente di Pechino continua con la politica del doppio binario: voi dovete liberalizzare, noi facciamo quello che ci aggrada. E, chiude Goldstein, «vediamo che si stanno orientando verso una decisa centralizzazione delle scelte economiche e un rafforzamento delle società a capitale pubblico come braccio armato delle scelte governative».