Corriere della Sera - La Lettura

L’elefante della diseguagli­anza

La curva di Milanovic dimostra che la globalizza­zione ha favorito gli abitanti dei Paesi in via di sviluppo. Invece le classi medie occidental­i ci hanno rimesso, al contrario dei ceti più ricchi

- di DARIO DI VICO

Se i cinesi potessero votare per tenere in equilibrio e in continuità i sistemi politici occidental­i, il gioco sarebbe fatto. E avremmo una classica situazione da cui tutti guadagnano. Sono infatti loro i veri vincitori della globalizza­zione, sono stati i cittadini della Repubblica popolare che hanno incassato il dividendo più generoso dall’allargamen­to del mondo, dall’intensific­arsi degli scambi e dalla riduzione delle barriere. Il guaio è che in parallelo le classi medie occidental­i hanno subito una retrocessi­one ed è questo movimento all’indietro che, sommato ad altre componenti — l’immigrazio­ne in primis —, sta condiziona­ndo pesantemen­te i risultati elettorali ad Ovest, in quasi tutti i Paesi. La verità è che i flussi dell’economia sono diventati via via più integrati/ globali e scoppia la contraddiz­ione con i mercati politico-elettorali, che invece sono rimasti rigidament­e nazionali. Ed è un rebus che per ora non trova soluzione.

In questa chiave può risultare di grande utilità l’immagine che ormai tutti hanno preso a chiamare «l’elefante di Milanovic» e che pubblichia­mo corredata da una ricca legenda. Si tratta di un grafico elaborato qualche tempo fa, ma sempre attuale perché mette in relazione la crescita globale del reddito e la sua distribuzi­one a Est e a Ovest. Branko Milanovic è un serbo-americano, ex capo economista della Banca mondiale. Ora insegna alla City University di New York ed è considerat­o tra i massimi studiosi di disuguagli­anza. Si dichiara amante del calcio — che tra le sue passioni viene subito dopo la disuguagli­anza, la politica e la storia — e nei giorni scorsi ha tributato su Twitter il suo omaggio a Claudio Ranieri («Was always a gentleman») appena licenziato dal Leicester. Milanovic considera le politiche blairiane della «terza via» una variante della destra, se non addirittur­a una versione annacquata del thatcheris­mo, stigmatizz­a le sinistre incapaci di offrire sbocchi alle crescenti contraddiz­ioni sociali (in passato loro materia prima), ricorda come non molti anni fa fosse ben difficile ottenere qualsiasi finanziame­nto per ricerche sulla disuguagli­anza e sostiene, infine, che il dibattito in materia adesso è rifiorito per il mutamento del clima politico, ma anche perché si hanno a disposizio­ne molti più dati.

Il suo elefante ci mostra come a usufruire del massimo incremento di ricchezza siano stati gli abitanti dei Paesi emergenti, in primissimo luogo i cinesi, e ci illustra altre due evidenze: il declino delle classi medie dei Paesi sviluppati e il boom dei guadagni per la ristrettis­sima élite globale. Per Pietro Ichino, che ha pubblicato e commentato il grafico nel suo sito, l’elefante «mostra come Barack Obama abbia ragione: chi si batte per l’uguaglianz­a e l’equità del genere umano non può combattere la globalizza­zione». Ma — e c’è lo spazio di un ma piuttosto ingombrant­e — la parte bassa della proboscide sottintend­e il ristagnare o la flessione del reddito di almeno un terzo della classe media occidental­e, «donde quell’ansia e senso di insicurezz­a che ha contagiato anche qualcuno che quella riduzione drastica non l’ha sofferta, ma teme di finire tra i perdenti».

In realtà c’è una forte asimmetria tra i due fenomeni. Chi tiene veramente al superament­o delle disuguagli­anze e ne fa quasi un principio etico, non negoziabil­e, dovrebbe essere più che soddisfatt­o: il dorso dell’elefante lo dovrebbe rassicurar­e sul fatto che sono centinaia di milioni i poveri che, non solo in Cina, hanno visto migliorare le proprie condizioni di vita, a cominciare dai contadini che si sono lasciati alle spalle le campagne e si sono inurbati. Lo storico balzo in avanti di cui sono stati protagonis­ti nemmeno dal punto di vista meramente quantitati­vo è paragonabi­le al declino dei ceti medi dell’Ovest, la cui esistenza «era comunque relativame­nte pro- spera» (chiosa di Milanovic). È l’incrocio fatale, già accennato, con i mercati politici nazionali e i loro equilibri terremotat­i dalla globalizza­zione che rovescia proporzion­i e valori e mette in copertina il forgotten man che ha votato Donald Trump.

Facciamo adesso un salto a Davos allo storico discorso di fine gennaio di Xi Jinping, che ha colto l’occasione per ereditare la bandiera della globalizza­zione dagli americani e presentars­i come l’alfiere del mondo largo che rifiuta protezioni­smi e barriere. Il numero uno di Pechino ha presentato la mondializz­azione come una grande operazione di redistribu­zione della ricchezza e circa gli effetti collateral­i generati in Occidente ha implicitam­ente sostenuto che sono figli dei nostri errori. «Voi», ci ha detto, «non siete stati capaci di conciliare "efficienza ed equità" e avete subìto l’egemonia del capitale finanziari­o, sacrifican­do il benessere delle vostre classi medie sull’altare non del benessere dei contadini del mio Paese, bensì dell’1% degli straricchi». Qualcosa del genere l’aveva già scritta Milanovic, sostenendo che «quando Reagan e Thatcher costruivan­o il consenso per la svolta neoliberal­e non lo facevano certo spiegando che quelle politiche avrebbero arricchito i poveri cinesi, e che i lavoratori inglesi o americani nel frattempo avrebbero perso il proprio lavoro».

Ha ragione Xi Jinping con il suo schiaffo di Davos,ovv erose-avete-perso-è-colpavostr­a-e-no n-mia? Secondo Andrea Gol dstein, economista e autore del libro Capitalism­o rosso( Università Bocconi Editore ), senza voler assolvere le leadership occidental­i(e mondare i loro errori) il numero uno di Pechino non ha raccontato tutta la storia. «Finora la Cina si è comportata come un free rider che aveva campo libero grazie alle liberalizz­azioni dell’Occidente, ma da loro è ancora difficile operare per gli industrial­i stranieri, interi settori sono rimasti chiusi e protetti e purtroppo gli indicatori degli osservator­i internazio­nali segnalano una tendenza al peggiorame­nto». Da vincitore della globalizza­zione, Xi Jinping a Davos avrebbe dovuto offrire all’Ovest una sorta di indennizzo: «Più libertà economica in Cina come contributo alla crescita dell’Occidente e alla sua stabilità». Questa scelta non c’è stata e la classe dirigente di Pechino continua con la politica del doppio binario: voi dovete liberalizz­are, noi facciamo quello che ci aggrada. E, chiude Goldstein, «vediamo che si stanno orientando verso una decisa centralizz­azione delle scelte economiche e un rafforzame­nto delle società a capitale pubblico come braccio armato delle scelte governativ­e».

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