Corriere della Sera - La Lettura

Il demone di Dostoevski­j è Hegel

Un volume di Konstantin Baršt è dedicato a disegni e ritratti disseminat­i dal grande scrittore russo nei taccuini riempiti durante tutta la vita. Ne emergono i suoi eroi ma anche Cervantes, Turgenev e un «Satana» inatteso

- Di IDA BOZZI

Siamo nel 1865 e per Fëdor Dostoevski­j (1821-1881) sono tempi cupissimi: ha già affrontato la chiusura d’autorità della sua rivista «Vremja» e ora è in bancarotta a causa della nuova impresa editoriale, «Epocha». Disperato, lo scrittore corre a Wiesbaden convinto di potersi rifare alla roulette: naturalmen­te perde il poco che gli era rimasto («anche l’orologio — scrive Dostoevski­j —, persino l’albergo mi è creditore»). Il suo pensiero allora corre all’amico con cui ha condiviso la condizione di astro nascente della letteratur­a russa e con cui ha scambiato conversazi­oni fraterne, il ricco Ivan Turgenev, al quale chiede un prestito di 100 talleri. Forse il Turgenev di un tempo avrebbe risposto senza esitazione, ma il letterato di successo, che ormai si è allontanat­o anche ideologica­mente dall’amico — peraltro nel febbraio 1865 la rivista «Epocha» gli deve ancora 300 rubli per la sua collaboraz­ione, e Turgenev ne è un po’ seccato —, risponde inviando a Dostoevski­j solo la metà esatta della cifra, 50 talleri, con vari buoni consigli perlomeno beffardi.

Fu il definitivo allontanam­ento tra i due. Ma di quel che attraversò la mente di Dostoevski­j per la defezione dell’amico non avremmo testimonia­nza immediata, se non fosse per un disegno di pugno di Dostoevski­j che risale proprio a quell’epoca (alla vigilia di Delitto e castigo, del 1866) e che ritrae quattro volti di un uomo in altrettant­e età diverse: i disegni raffiguran­o Ivan Turgenev nella sua evoluzione da ragazzo angelico ad adulto nobile, e poi sornione, e infine, in età matura, burbero. Talmente burbero da essere voltato dall’altra parte, di profilo, con gli occhi stretti in una smorfia di dolore o rifiuto.

Questa è l’interpreta­zione che del disegno dà Konstantin Baršt, considerat­o il più importante studioso dell’opera grafica di Dostoevski­j e autore di un pregevole volume, Disegni e calligrafi­a di Fëdor Dostoevski­j, edito da Lemma Press, che pubblica circa duecento disegni del grande scrittore russo tratti dai suoi celebri, disegnatis­simi taccuini; ciascuna tavola è accompagna­ta da saggi ricchi di notizie sull’attività letteraria e sulla vita dello scrittore, ma soprattutt­o intesse una trama di temi ricorrenti, di sviluppi dal disegno alla letteratur­a, di leitmotiv e ossessioni.

Baršt ripercorre l’adolescenz­a di Dostoevski­j e mostra come la sua educazione alla Scuola superiore di ingegneria militare di San Pietroburg­o, dove il disegno era materia fondamenta­le, non fosse passata invano: il futuro scrittore si impadronì dell’arte con diligenza enorme. Amava la carta, i pennini, l’inchiostro, e qualcosa della sua visione del mondo passava, prima che dalla parola, dal tratteggio, dallo schizzo e dall’abbozzo. Tutte le carte preparator­ie dei romanzi principali — non le brutte copie, ma i taccuini su cui scioglieva i temi chiave e i primi progetti — sono fitte di disegni, in prevalenza piccoli ritratti umani, esercizi calligrafi­ci e fregi architetto­nici.

Scarabocch­i? Per niente. Lasciandos­i guidare da Baršt si fanno scoperte notevoli. Non solo la tavola dei «quattro Turgenev» sembra anticipare la decisione di adombrare l’ex amico tra i letterati nichilisti de I demoni, ma in quel Turgenev dei primi anni si scorge anche il sorriso aperto, generoso, buono, che Dostoevski­j rincorrerà a colpi di pennino per anni, mentre sta per concepire un altro capolavoro: L’idiota. Nel taccuino che Dostoevski­j usa a partire dall’autunno 1867, epoca del Grand Tour che per due anni lo porterà a Ginevra e poi a Milano, Venezia e Vienna, lo scrittore inizia ad abbozzare le caratteris­tiche del suo futuro campione di bontà. All’inizio il principe Myškin non è affatto buono, anzi il personaggi oche Dostoevski­j abbozza sul taccuino ha, scrive ,« impeti violenti e focosi, un ribollio che scombussol­a; a sten tosi contiene( natura possente ), irrefrenab­ili, fino a divenire voluttuosi, impeti di menzogna(Ivan il Terribile), molta abiezione e atti oscuri». Il disegno è grottesco, ma quel volto cambierà, a poco a poco: non è la mostruosit­à bruta ciò che Dostoevski­j va cercando, ma la mostruosit­à dell’etica, i lvi sodi un uomo buono fino all’ intollerab­ile, fino al deforme.

Un analogo filo rosso si trova in altri disegni che tornano ossessivi anno dopo anno nei taccuini come in cerca di una storia in cui infilarsi. Il vecchio Miguel de Cervantes, ad esempio, autore amatissimo da Dostoevski­j — che scopre stupito molte somiglianz­e biografich­e tra sé e l’autore del Don Chisciotte —, spesso raffigurat­o con la classica barba appuntita. La presenza di una figura autorevole, di un anziano con la lunga barba, ritorna in molti dei disegni dostoevski­ani pubblicati da Baršt, anzi ormai Dostoevski­j, uomo di mezz’età, rappresent­a anche se stesso con la lunga barba e la larga fronte calva; in un quaderno che risale al 1872-75 il suo autoritrat­to ha un’aria quasi del tutto spirituale, tanto più evanescent­e visto che il disegno compare in una pagina fitta di somme e prosaici calcoli relativi alle spese dello scrittore.

Ma il viso di quel vecchio, di disegno in disegno, si farà anche più spirituale. La sofferenza continuerà a trasfigura­rsi, l’auctoritas evocata non sarà più quella terrena dell’uno o dell’altro grande scrittore: a poco a poco ci troviamo di fronte allo starec, cioè a un eremita in odore di santità, quella figura della religiosit­à ortodossa di cui Dostoevski­j trova vari esempi nella tradizione russa e nelle cronache dell’epoca: nei materiali preparator­i de I Fratelli Karamazov l’ossessione grafica di tutta una vita diventa esplicita e si accinge a incarnare un’altra figura letteraria gigantesca, lo starec Zosima, cioè la guida spirituale di Aleksej Karamazov.

La cospicua opera di Baršt rende palese soprattutt­o un aspetto peculiare del lavoro di Dostoevski­j, oltre a mostrare il confluire nei disegni di impression­i e motivi eterogenei (tracce dell’iconografi­a religiosa, della tradizione russa, della cultura europea, strutture architetto­niche, forme naturali; fino alle allusioni ellittiche come il ripetuto disegno di un naso, che non può non far pensare a una citazione de Il naso di Nikolaj Gogol). L’aspetto peculiare è un lavorìo continuo, un percorso filosofico che non si interrompe nemmeno mentre lo scrittore, forse sovrappens­iero, scarabocch­ia qualcosa ai margini dei suoi quaderni.

Tra gli esempi più significat­ivi di questa continua ricerca c’è un bellissimo disegno, tra i più compiuti, che sembra raffigurar­e il padre dei Karamazov, il vecchio Fëdor: figura disturbant­e, dissoluta, con le guance afflosciat­e e un accenno di doppio mento. Ebbene, Baršt spiega che la caricatura «può anche essere interpreta­ta come il tentativo di immaginare le sembianze di Hegel invecchiat­o», e corrobora l’ipotesi non solo citando la corrispond­enza di Dostoevski­j con il filosofo Vladimir Solov’ëv, ma anche evocando un altro dei personaggi dei Karamazov, tra i più sfuggenti: il diavolo. Che incontra Ivan, poco prima dell’epilogo, e lo sfida a una battaglia dialettica intorno all’Ideale, il Divino, il Razionale, insomma i temi hegeliani. Il fantasma, il demone filosofico che agita l’atmosfera dei Karamazov ( e quindi Dostoevski­j), non è tanto il Karamazov padre, ma l’antico demone letto e anzi divorato in gioventù: il filosofo dello spirito Friedrich Hegel.

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