Corriere della Sera - La Lettura
La società ibrida
Mohsin Hamid: in Europa c’è un «sistema segregato» che non è per nulla multiculturale: pone i bianchi e i cristiani più in alto. Occorre invece fissare regole rispettose della libertà di vivere in modi diversi
«Il multiculturalismo ha fallito», disse nel 2011 David Cameron, allora premier britannico, avvertendo che, anziché produrre integrazione, stava alimentando l’estremismo, specie il terrorismo islamico. «Il multiculturalismo conduce a società parallele e, dunque, rimane una menzogna», ha ripetuto di recente la cancelliera tedesca Angela Merkel, che pure aveva aperto le porte ai rifugiati siriani. Oggi multiculturalismo non è una parola popolare. Ma pur riconoscendone fallimenti e limiti, due intellettuali in visita in Italia ammoniscono sui rischi di intraprendere la strada di una politica di esclusione identitaria e xenofoba. Il primo è lo scrittore pachistano Mohsin Hamid: sarà a Milano il 20 aprile per Tempo di Libri con il suo nuovo romanzo Exit West (Einaudi), che racconta le vicende di una coppia in fuga da una guerra civile in un mondo di migrazioni di massa e di «portali» che consentono di teletrasportarsi da luoghi come Aleppo fino a Londra. Il secondo è il filosofo inglese e docente della New York University Kwame Anthony Appiah, figlio di un leader politico ghanese, famoso per il saggio Cosmopolitismo (Laterza): è stato appena ospite del campus fiorentino della New York University, dove ha parlato di Mistaken Identities («Identità fallaci»), titolo di una sua serie radiofonica per la Bbc e di un prossimo libro. Al termine multiculturalismo, «sfuggente e ambiguo» e che «spesso indica la malattia che pretende di curare», Appiah preferisce cosmopolitismo, l’idea che siamo cittadini del mondo, «con differenze culturali temperate dall’apprezzamento attivo della nostra umanità condivisa». lunga storia anticlericale, ma c’è anche il senso di essere culturalmente cristiani, che però non è ufficialmente riconosciuto e dunque non si affronta il problema che i musulmani non vengono integrati allo stesso modo. In Gran Bretagna la situazione è diversa: la difficoltà di integrazione è legata al fatto che molti immigrati provenivano da zone dell’Asia meridionale, non urbane, ma rurali e culturalmente remote. Sono arrivati in città come Leeds e nessuno ha pensato a come assicurarsi che comprendessero il sistema politico e la cultura pubblica. Gli inglesi hanno il diritto di dire: se vengono da noi, devono essere parte di un “noi”. Leeds non è l’Asia meridionale. Integrazione significa accettare una cultura pubblica. La sfida è trovare forme di integrazione più attiva che siano rispettose del cosmopolitismo e della libertà di vivere in modi diversi. Io penso che gli Stati Uniti abbiano un approccio in teoria migliore: in passato, in periodi di forte immigrazione, si creavano programmi di socializzazione per presentare alla gente i valori di quel Paese, il che era reso più facile dal ripudio dell’idea che per essere americano tu dovessi aderire a una determinata religione. Quel che è nuovo negli Stati Uniti è l’anti-cosmopolitismo legato all’emergere di un nazionalismo con connotazioni razziali, cresciuto nelle comunità di bianchi delusi, spesso disoccupati o sottoccupati, rimasti emarginati nella nuova economia. Mentre la sfida aperta è di rivedere le economie nazionali per creare occupazione nell’era dei robot, c’è la tentazione di scegliere una politica identitaria xenofoba: è ciò che la gente fa quando ha paura».
«C’è un rischio anche nel concetto di cosmopolitismo — dice Hamid — ed è il sospetto che chi sta più in alto nella gerarchia sociale imponga i propri valori cosmopoliti sugli altri. Io immagino culture e società miste, in cui non si debba adottare la visione dei più cosmopoliti, ma interagire, penso a un processo di ibridazione. Non significa che tutti cambiano allo stesso modo, ma tutti cambiano. Nel romanzo racconto un’era di migrazioni apocalittiche, ma non è la fine: il futuro è un’identità ibrida. È importante respingere l’idea che sia una cosa nuova: è così che funziona la natura, è la nostra storia come esseri umani».
«Steve Bannon, il consigliere di Donald Trump, pensa che per essere un buon americano si debba far parte di una precisa forma di civiltà e cultura occidentale — aggiunge Appiah —. Non dice esplicitamente che si debba essere bianchi, ma molti di coloro che condividono le sue idee lo sono. Ed è una teoria assurda, perché molti dei seguaci di Bannon non sanno nulla delle tradizioni dell’Occiden- te, non conoscono Platone né Aristotele. Io sono un ammiratore di tanti aspetti di questa tradizione, ma credo che le persone ne diventino partecipi attraverso lo studio e non per eredità genetica».