Corriere della Sera - La Lettura
Il reddito garantito umilia le persone
Dibattito Lo studioso tedesco Henning Meyer: «Essere mantenuti senza lavorare toglie dignità ai cittadini. Un passo falso. Molto meglio che lo Stato li impieghi per attività socialmente utili»
Che si chiami reddito di base, di cittadinanza o salario sociale, si tratta di una questione cruciale. Molti lo considerano uno strumento irrinunciabile per contrastare la povertà, altri lo vedono come fonte di lassismo e parassitismo sociale. Da un lato se n’è impadronito il populismo per destabilizzare gli equilibri politici, dall’altro i neoliberisti lo vedono come l’occasione propizia per liberarsi di sistemi pensionistici troppo gravosi. La sua lontana matrice fabiana, da socialismo utopistico, è stata raccolta da diversi pensatori, come André Gorz, per il quale «tutti contribuiscono alla produzione sociale per il semplice fatto di vivere in società e meritano dunque quella retribuzione che è il reddito d’esistenza». Ma le perplessità sono molte. Henning Meyer, tedesco docente alla London School of Economics, ne mette in dubbio l’efficacia contro la disoccupazione. Senza contare che lo smantellamento del sistema previdenziale, sostituito da misure minime generalizzate, si risolverebbe in una falsa democratizzazione, privilegiando le classi che non hanno bisogno di sostegno.
Professor Meyer, il reddito universale di base è considerato una delle priorità della futura agenda economica. Questa misura può davvero contrastare la disoccupazione tecnologica?
«La minaccia potenziale della disoccupazione tecnologica è una delle questioni economiche più gravi del nostro tempo, eppure c’è uno scarso dibattito su quale dovrebbe essere la risposta globale al problema. Non sappiamo se si materializzeranno su larga scala le previsioni pessimistiche sulla perdita dei posti di lavoro, ma sappiamo che i governi devono essere preparati, se e quando si verificheranno mutamenti significativi. L’idea di un reddito universale di base è la pietra angolare della discussione politica in corso. Ma se si esamina il problema nei dettagli, è evidente che il reddito di base non risolverà le questioni chiave. Per diversi motivi: il primo è che il reddito di base riduce il valore del lavoro a semplice fonte di introiti. Guadagnarsi da vivere è ovviamente una questione cruciale, ma il lavoro è anche il fattore principale di autostima, necessario a strutturare la vita delle persone e a dotarle di un ruolo sociale. Inoltre c’è il rischio di lasciare cicatrici. Se le persone abbandonano il mercato del lavoro e vivono a lungo di salario sociale, le loro possibilità di trovare un impiego si assottigliano, visto che l’attuale trasformazione tecnologica rende rapidamente obsolete le competenze».
Eppure il reddito di cittadinanza potrebbe contribuire a ridurre la disuguaglianza, ormai caratteristica endemica dei Paesi più sviluppati.
«Pagare le persone con un reddito di base non risolve il problema fondamen- tale per cui nell’economia digitale alcuni andranno avanti e molti rimarranno indietro. Uno degli argomenti più diffusi è che, se la gente vuole più denaro rispetto al reddito garantito, può lavorare per qualche giorno. Ma se il problema è la disoccupazione tecnologica, questa opzione è semplicemente inattuabile, dato che il lavoro non ci sarà più. L’economia digitale crea così una nuova sottoclasse appesa al reddito di base e un’élite economica che gode di vantaggi maggiori; per di più sgravata di gran parte della responsabilità sociale per quelli che restano indietro, dato che il finanziamento dei loro redditi sarà ricavato dalla tassazione fissa e dall’abolizione della previdenza sociale».
C’è un rapporto tra reddito di base e flussi migratori?
«Possono sorgere problemi spinosi sul diritto degli immigrati di accedere al reddito di base e, nel caso dell’Europa, su come renderlo compatibile con la libertà di circolazione nell’Unione Europea e con le norme di non discriminazione. Inoltre in molti Paesi non sarebbe sem- plice abolire gli attuali sistemi pensionistici per sostituirli con l’introduzione del reddito sociale, perché sono legati a precisi diritti acquisiti».
Quali potrebbero essere le soluzioni alternative?
«Innanzitutto i sistemi formativi dovrebbero adattarsi alle nuove realtà economiche. L’istruzione dovrebbe essere fondata meno sul mandare a memoria le nozioni e più sulla trasformazione di queste in conoscenza, insegnando a trasferire competenze creative, analitiche e sociali. In secondo luogo, di fronte a una vasta disoccupazione tecnologica, il primo passo dovrebbe essere la ripartizione del lavoro residuo. Non per introdurre la settimana lavorativa di 15 ore che John M. Keynes aveva previsto per i suoi nipoti, ma, dove possibile, per usare quella stessa logica come strumento di riequilibrio. In terzo luogo, i responsabili delle politiche pubbliche dovrebbero pensare a programmi di garanzia dell’occupazione, quando si perderanno i lavori tradizionali, a sostegno del normale mercato del lavoro e per mantenere le persone attive e capaci di utilizzare le loro competenze».
Significa recuperare lo spirito keynesiano dell’intervento pubblico nell’economia. I governi dovrebbero comportarsi come «datori di lavoro di ultima istanza»?
«Certo, questo eviterebbe le cicatrici e si potrebbero promuovere attività di riqualificazione. I governi avrebbero uno strumento aggiuntivo per incentivare le attività socialmente utili. Ad esempio le garanzie di lavoro potrebbero essere efficacemente utilizzate nei settori della salute e dell’assistenza, dove le tendenze demografiche all’ invecchiamento richiederanno in futuro un maggior intervento umano. Ma anche per finanziare lo sport e altre attività culturali a livello locale, rafforzandola coesione sociale delle comunità. Non si tratta di introdurre un’economia pianificata».
Ma dove si trovano le risorse finanziarie necessarie?
«Vale certo la pena di ripensare la tassazione, assieme all’ipotesi di ampliare la base imponibile, anche se alla fine potrebbe risultare insufficiente o distorsiva. Se finiremo davvero in un mondo dove la maggior parte del lavoro verrà svolta dai robot, la domanda fondamentale è: chi possiede i robot?».
Chi possiede i robot sarà il padrone del mondo, e non dovrà neppure preoccuparsi delle vertenze sindacali. Che ne sarà dei lavoratori in questa prospettiva distopica?
«È più che mai necessario democratizzare la proprietà del capitale. Se i proprietari di robot saranno i vincitori in questo New Brave World digitale che ricorda il romanzo di Aldous Huxley (in italiano Il mondo nuovo, ndr) le quote di partecipazione della proprietà dovranno essere nelle mani del maggior numero possibile di persone. Può funzionare a livello individuale e macro. A livello aziendale, modelli come la “quota dei lavoratori” potrebbero diffondere la proprietà tra i dipendenti, in modo che siano sempre meno vincolati ai salari. A livello macro si potrebbero creare speciali veicoli finanziari per risocializzare i redditi da capitale. Attraverso fondi di investimento pubblici, sulla falsariga delle dotazioni universitarie o dei fondi sovrani, si possono produrre nuovi flussi di reddito pubblico da utilizzare per finanziare le garanzie di lavoro. Soltanto se unita a questi correttivi politici, la visione libertaria del reddito di base potrà non solo fornire una protezione efficace contro i possibili disagi della rivoluzione digitale, ma creare gli strumenti per rafforzare le comunità e ridurre la disuguaglianza».