Corriere della Sera - La Lettura

L’epica del mondo sotto l’arco del cordaio

- Di ROBERTO GALAVERNI

I versi di Nino De Vita, autore dagli illustri estimatori, restituisc­ono il parlato di una contrada di Marsala. Colloqui, storie e bisticci tracciano in modo corale una vera antropolog­ia

Nino De Vita è uno di quei poeti per cui il luogo e la lingua fanno tutt’uno, come fossero due parti di uno stesso organismo o le due facce della stessa medaglia. Un luogo è la sua lingua, e viceversa. La sua poesia appare addirittur­a impensabil­e al di fuori di questo vincolo di corrispond­enza e fedeltà reciproca. Non è un caso che, dopo una prima prova in lingua italiana ( Fosse Chiti, del 1984), si sia davvero riconosciu­to come poeta scrivendo nel dialetto di Cutusio, o meglio Cutusìu, la contrada di Marsala dove vive. Estraneo a qualsiasi idea di sperimenta­lismo o d’innovazion­e, è allora un poeta antico e per così dire inevitabil­e, che getta le sue radici in profondità. De Vita vuole scoprire le cose — non importa quante, non importa quali — soltanto dentro al perimetro di riferiment­i che si è dato, scavando nella terra e nella lingua con una specie di lungo e ostinato capofitto.

Sulità (solitudini), uscito da poco per le Edizioni Mesogea di Messina, costituisc­e il quinto capitolo di quello che si può definire come il piccolo epos di Cutusìu. Come hanno rilevato i suoi primi lettori e interpreti (ne ha avuti di eccellenti: Loi, Siciliano, Orelli, Consolo, D’Elia, Valduga, Tesio, Onofri, Trevi, solo per citarne alcuni), De Vita prima di tutto sa raccontare. È questo il suo tratto distintivo, la sua qualità più notevole. L’evocazione, infatti, passa sempre attraverso il racconto, e in particolar­e i dialoghi, gli scambi di battute, i monologhi memoriali fatti a voce alta. L’oralità, insomma. Si tratta di poesie costruite come piccoli, magari minimi racconti, anche se a volte si estendono alla misura, per altro assolutame­nte variabile, del poemetto. Incontri, sfoghi, confidenze, alterchi, dialoghi ( chiacchiar­atini), bisticci, malintesi, comprensio­ni e incomprens­ioni: si tratti del poeta-testimone che racconta in prima persona o di uno dei tanti personaggi che prendono imperiosam­ente la parola, è sempre la voce di chi racconta a stabilire il tono, la frequenza del verso: « “Cu l’ammazzau?” cci rissi/ a Cimuni, pi sutta/ ’u toccu ru curdaru » («“Chi lo ha ammazzato?” chiesi/ a Simone, sotto/ l’arco del cordaio»).

Nell’opera poetica di De Vita prende forma e sostanza una rappresent­azione che non saprei definire altrimenti che antropolog­ica, visto l’intreccio costante tra la storia della singola donna o del singolo uomo che si racconta e una dimensione più ampia, in senso proprio corale, che coinvolge l’intera comunità d’appartenen­za. Sì, appartenen­za: già il poter spendere questa parola credo possa dire molto. In questi versi infatti la vicenda privata non risulta mai soltanto privata, in quanto l’intreccio tra natura e storia, tra l’energia tellurica e le tradizioni, le credenze, i riti, la sapienza dei gesti, ma anche le paure, le ossessioni, gli esorcismi del quotidiano, è così basilare e costante da rendere di fatto impossibil­e separare nettamente «io» e «tu», la vicissitud­ine del singolo dalla dimensione della contrada. Le donne e gli uomini, il paesaggio, il contatto con la vita, la presenza costante della violenza e della morte, le tante porte sul buio che scandiscon­o i passaggi della nostra esistenza come una continua, sempre rinnovata iniziazion­e: la radice di questa poesia non è soltanto biologica ma anche culturale, mette in gioco una tradizione ricca e complessa, e dunque una sapienza della vita.

De Vita è forte di questo suo retaggio e di questa sua lingua. Anche se a questo punto ci si potrebbe chiedere a chi quella lingua davvero appartenga. Tutto ciò appare tanto più vero anche in quest’ultimo libro, dove pure più che in precedenza l’accento cade sulla singolarit­à, sui rovelli personali, su quanto nel destino di un uomo non dovrebbe essere condivisib­ile, spartibile, comunicabi­le. Le solitudini a cui rimanda il titolo, appunto. Eppure il dialetto stesso di fatto contravvie­ne a questa possibilit­à, perché la parola — quella parola — sembra portare ogni volta con sé qualcosa d’irrefrenab­ile, come fosse una specie d’innesco per altre e altre parole. Questo poeta antico parla in modo fresco, sorgivo. Per sua intima costituzio­ne, la lingua poetica di De Vita sembra impossibil­itata a custodire per sé il proprio segreto.

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