Corriere della Sera - La Lettura
L’epica del mondo sotto l’arco del cordaio
I versi di Nino De Vita, autore dagli illustri estimatori, restituiscono il parlato di una contrada di Marsala. Colloqui, storie e bisticci tracciano in modo corale una vera antropologia
Nino De Vita è uno di quei poeti per cui il luogo e la lingua fanno tutt’uno, come fossero due parti di uno stesso organismo o le due facce della stessa medaglia. Un luogo è la sua lingua, e viceversa. La sua poesia appare addirittura impensabile al di fuori di questo vincolo di corrispondenza e fedeltà reciproca. Non è un caso che, dopo una prima prova in lingua italiana ( Fosse Chiti, del 1984), si sia davvero riconosciuto come poeta scrivendo nel dialetto di Cutusio, o meglio Cutusìu, la contrada di Marsala dove vive. Estraneo a qualsiasi idea di sperimentalismo o d’innovazione, è allora un poeta antico e per così dire inevitabile, che getta le sue radici in profondità. De Vita vuole scoprire le cose — non importa quante, non importa quali — soltanto dentro al perimetro di riferimenti che si è dato, scavando nella terra e nella lingua con una specie di lungo e ostinato capofitto.
Sulità (solitudini), uscito da poco per le Edizioni Mesogea di Messina, costituisce il quinto capitolo di quello che si può definire come il piccolo epos di Cutusìu. Come hanno rilevato i suoi primi lettori e interpreti (ne ha avuti di eccellenti: Loi, Siciliano, Orelli, Consolo, D’Elia, Valduga, Tesio, Onofri, Trevi, solo per citarne alcuni), De Vita prima di tutto sa raccontare. È questo il suo tratto distintivo, la sua qualità più notevole. L’evocazione, infatti, passa sempre attraverso il racconto, e in particolare i dialoghi, gli scambi di battute, i monologhi memoriali fatti a voce alta. L’oralità, insomma. Si tratta di poesie costruite come piccoli, magari minimi racconti, anche se a volte si estendono alla misura, per altro assolutamente variabile, del poemetto. Incontri, sfoghi, confidenze, alterchi, dialoghi ( chiacchiaratini), bisticci, malintesi, comprensioni e incomprensioni: si tratti del poeta-testimone che racconta in prima persona o di uno dei tanti personaggi che prendono imperiosamente la parola, è sempre la voce di chi racconta a stabilire il tono, la frequenza del verso: « “Cu l’ammazzau?” cci rissi/ a Cimuni, pi sutta/ ’u toccu ru curdaru » («“Chi lo ha ammazzato?” chiesi/ a Simone, sotto/ l’arco del cordaio»).
Nell’opera poetica di De Vita prende forma e sostanza una rappresentazione che non saprei definire altrimenti che antropologica, visto l’intreccio costante tra la storia della singola donna o del singolo uomo che si racconta e una dimensione più ampia, in senso proprio corale, che coinvolge l’intera comunità d’appartenenza. Sì, appartenenza: già il poter spendere questa parola credo possa dire molto. In questi versi infatti la vicenda privata non risulta mai soltanto privata, in quanto l’intreccio tra natura e storia, tra l’energia tellurica e le tradizioni, le credenze, i riti, la sapienza dei gesti, ma anche le paure, le ossessioni, gli esorcismi del quotidiano, è così basilare e costante da rendere di fatto impossibile separare nettamente «io» e «tu», la vicissitudine del singolo dalla dimensione della contrada. Le donne e gli uomini, il paesaggio, il contatto con la vita, la presenza costante della violenza e della morte, le tante porte sul buio che scandiscono i passaggi della nostra esistenza come una continua, sempre rinnovata iniziazione: la radice di questa poesia non è soltanto biologica ma anche culturale, mette in gioco una tradizione ricca e complessa, e dunque una sapienza della vita.
De Vita è forte di questo suo retaggio e di questa sua lingua. Anche se a questo punto ci si potrebbe chiedere a chi quella lingua davvero appartenga. Tutto ciò appare tanto più vero anche in quest’ultimo libro, dove pure più che in precedenza l’accento cade sulla singolarità, sui rovelli personali, su quanto nel destino di un uomo non dovrebbe essere condivisibile, spartibile, comunicabile. Le solitudini a cui rimanda il titolo, appunto. Eppure il dialetto stesso di fatto contravviene a questa possibilità, perché la parola — quella parola — sembra portare ogni volta con sé qualcosa d’irrefrenabile, come fosse una specie d’innesco per altre e altre parole. Questo poeta antico parla in modo fresco, sorgivo. Per sua intima costituzione, la lingua poetica di De Vita sembra impossibilitata a custodire per sé il proprio segreto.