Corriere della Sera - La Lettura
The end
Sono passati quasi 50 anni da quando vidi sul grande schermo «2001: Odissea nello spazio». Non capii quasi nulla, ma una cosa mi fu chiara: una potente liturgia. Da allora Vhs, Dvd e device hanno rovinato tutto. Altro che renderci liberi!
Ricordo ancora il pomeriggio nell’autunno del 1968 in cui mio padre mi portò a vedere 2001: Odissea nello spazio al cineteatro Nuovo di Bergamo. Avevo 12 anni e non mi sarei mai immaginato che su quello stesso schermo, trent’anni dopo, avrebbero proiettato anche i miei film. Ma questa è un’altra storia. Il cineteatro Nuovo era un cinemone di quelli di una volta: 1.200 posti a sedere (su poltrone di legno scricchiolante, che fornivano una sorta di surround d’epoca), galleria e platea a prezzi diffe- renziati, schermo enorme. A rimarcarne la spettacolarità, 2001 usciva in 70mm. Infatti, quando si spensero le luci, tutto mi sembrò grandioso: la sequenza d’apertura accompagnata dallo Zarathustra di Strauss; le scene con gli scimmioni umanoidi; il valzer della stazione orbitante; la disattivazione dell’infame elaboratore HAL 9000, con la colonna sonora fatta solo del respiro cadenzato dell’astronauta; la stanza d’albergo in cui si svolge il cortocircuito spazio-temporale alla fine del viaggio; la sequenza psichedelica (termine di cui allora ignoravo esistenza e natura, ma di cui intuivo benissimo il risultato); infine, la straordinaria immagine del feto in mezzo ai pianeti.
Quando si riaccesero le luci in sala mio padre mi chiese: «Tu ci hai capito qualcosa?». Mio padre era un semplice impiegato, e ascriveva ai suoi limiti culturali il problema. Io non è che avessi capito molto più di lui, figuriamoci; e — ascoltandone i commenti — nemmeno la maggioranza degli spettatori in sala. Ma sentivo chiaramente una cosa — e si intuiva che era così anche per gli altri: forse non avevamo capito molto, ma l’esperienza era stata potente e unica. Incomprensibile, ma intensa e misteriosamente evocativa. Proprio come la messa in latino a cui mio padre mi portava fino a pochi anni prima.
Vent’anni dopo
Mi trasformai in cinefilo. Mi misi a vedere centinaia di film e a leggere pile di libri specialistici. Finalmente compresi cosa Kubrick voleva dire con 2001; anzi, proprio Kubrick divenne per me (e per molti) l’alfiere dell’Autorialità Assoluta. Ma come capita con certe opere, come I promessi sposi, che leggi a scuola e poi dai per scontate tutta la vita, mi resi conto che non avevo più visto 2001 da quel lontano giorno. Così (sarà stato il 1985) organizzai a casa mia una serata per rivedere il film con gli amici. In cassetta Vhs e su un 40 pollici a tubo catodico, perché quello passava la tecnologia di allora.
Già non essere vincolati da un orario fisso, come al cinema, ebbe delle conseguenze. L’aperitivo andò per le lunghe, arrivammo alla visione distratti e poco concentrati. Presto, fu anche chiaro che lo sfarfallio del Vhs non rendeva giustizia alla straordinaria definizione del 70mm originale; e che nemmeno l’impianto audio di casa era all’altezza della roboante colonna sonora. Ma quello che pian piano rese la serata così diversa da quella primigenia esperienza al cineteatro Nuovo fu che, nonostante adesso fossi molto più consapevole, l’impressione che ricevevo era decisamente più fredda. Detto in parole povere, il tinello di uno studente non era il contesto in cui apprezzare a pieno il respiro del film.
Poi gli amici con me — cinefili che non avrebbero osato fiatare in una sala di proiezione — cominciarono a condividere ad alta voce tutte quelle bellissime cose che anch’io avevo letto sulle intenzioni di Kubrick. La visione divenne una specie di cineforum con dibattito — però durante il film, non dopo. Cominciò anche a farsi sentire l’effetto degli aperitivi e— a turni ravvicinati — ciascuno si prese una necessaria pausa al bagno. Ogni volta che uno si alzava, mettevamo in pausa. A un certo punto, suonò il telefono di casa. Era un apparecchio fisso nell’altra stanza, e la telefonata proveniva dalla migliore amica della mia compagna. Cominciarono a parlare. Tutto quello che si poteva fare era chiudere la porta: la conversazione sull’adulterio patito da una loro conoscenza, per quanto attutita, accompagnò tutta la famosa sequenza psichedelica.
Il film finì. Professionali, esclamammo in coro: «Che capolavoro!». Ma l’uscita suonava tanto come un esorcismo un po’ ipocrita. Niente di quella serata restava memorabile. Continuava a essere l’emozione della prima volta a garantirmi che 2001 era un film straordinario.
Un anno fa
Ho scoperto che mia figlia ventenne non aveva mai visto 2001. Una sera la convinsi a sedersi con me davanti al 52 pollici al plasma che uso per lavoro e infilai nel lettore il Blue Ray «Special Edition» del film. Stavolta la qualità dell’immagine in HD e dell’audio in 5.1 erano ampiamente soddisfacenti. Ci godemmo la sequenza degli umanoidi, poi il valzer della stazione orbitante. Tutto bene; salvo un commento tipo «Lentino, questo film», con cui se ne era uscita la ragazza. Poi, al primo dialogo, mi accorsi che non avevo selezionato la versione in lingua originale. Ci tenevo, a vederlo in inglese con lei. Cominciai ad armeggiare con i tasti; ma per qualche inspiegabile ragione, il Blue Ray si risettava sempre all’inizio del film. Dopo cinque minuti così, mia figlia si è alzata e ha detto: «Sistemalo, intanto vado a prendere una Coca». Si è rifatta viva solo una ventina di minuti più tardi. In mezzo ci aveva messo una conversazione Skype con un’amica; e uno scambio di vedute con sua madre su qualche problema domestico. Abbiamo ricominciato, ma dopo una mezzoretta lei ha chiesto quanto durava il film. «Due ore e quaranta mi pare…».