Corriere della Sera - La Lettura
Santiago Sierra trasforma il clochard in opera d’arte
Gary Lee ha partecipato a una «fila» in una performance al Pac di Milano Questa è la sua storia: dolore e rinascita
Da tempo Santiago Sierra ha scelto di mettere in scena la fragilità dell’uomo, come nella mostra «Mea culpa». Per la sua installazione temporanea ha invitato mille senzatetto. «La Lettura» ha incontrato uno di loro
Questa è la storia di Gary Lee, 58 anni, inglese di Birmingham, che in un’altra vita, nemmeno tanto tempo fa, aveva una moglie (italiana), due figli, un lavoro. Un’esistenza maledettamente normale, insomma, per una ventina d’anni divisa tra Inghilterra, Italia e Colombia. Poi, all’improvviso, il meccanismo s’è inceppato: il matrimonio è finito, il lavoro è sparito e Gary Lee, che un tempo era stato professore d’inglese, si è ritrovato senza casa, uno dei tanti homeless della grande Milano. Il suo rifugio per la notte: gli anfratti dell’aeroporto di Linate; il suo letto: un mucchio di cartoni buttati per terra e qualche coperta. Almeno fino a quando, lo scorso dicembre, lui e gli altri clochard non sono stati cacciati fuori anche da Linate e Gary Lee è finito all’ospedale per una brutta polmonite. «Quando mi hanno dimesso — racconta oggi a “la Lettura” — non sapevo più davvero dove andare».
A questo punto, però, questa diventa anche la storia di un’arte che può trasformarsi (quasi si trattasse dell’orecchino caduto a Helen-Gwyneth Paltrow in Sliding doors) in una buona occasione: «Pioveva forte, faceva molto freddo. Così con due miei amici, gli stessi che dividevano con me le notti in aeroporto prima che ci cacciassero, siamo entrati al Pac, il Padiglione d’arte contemporanea, dove c’era una mostra, ingresso gratuito, che si chiamava Ri-Scatti, dove erano esposti gli scatti realizzati da 13 fotografi senza-casa, proprio come noi. E visto che si parlava di melting pot, di multicultura e di integrazione mi è venuto in mente di propormi come traduttore, per fare da intermediario con una realtà che conoscevo fin troppo bene». Dopo quel tetto provvisorio sarebbe arrivato anche quello in qualche modo definitivo: «I volontari della Ronda della Carità, che erano legati al progetto del Pac, mi hanno procurato un posto nella Casa degli Amici di via Timavo», in zona Lambrate, dove oggi Gary Lee può dormire sonni più tranquilli.
Gary Lee è stato uno dei mille homeless (ma lui preferisce parlare di «persone normali che come me hanno avuto dei problemi») coinvolti nella performance che ha inaugurato lo scorso 23 marzo, sempre al Pac, Mea Culpa, la prima grande antologica (curata da Lutz Henke e Diego Sileo) dedicata in Italia a Santiago Sierra, l’artista spagnolo (Madrid, 1966) che da tempo ha scelto di mettere in scena la fragilità dell’uomo: una lunga fila (filmata e fotografata rigorosamente a mezzo busto) di un migliaio di persone, tra emarginati e «problematici» che al termine sono stati retribuiti, come accade spesso nei lavori di Sierra, con 10 euro. Un’ouverture emozionalmente fortissima che ha aperto la strada agli altri lavori di Sierra testimoniati da video, fotografie, installazioni: i denti degli ultimi gitani di Ponticelli, Napoli (2009); il «no» proiettato sopra il Papa durante la Giornata mondiale della gioventù a Cadice, Spagna (2011); la serie dei Veterani di guerra davanti al muro iniziata nel 2011 a Berlino (2011); il graffito più grande del mondo realizzato per la prima volta a Tinouf, Algeria (2012); la Bandiera nera al Polo Nord (2015).
Tutto molto politico, secondo quello che sembra essere l’input più evidente arrivato dalla Biennale di Venezia in corso. «Oggi sembra un’ovvietà affermare che l’arte è politica — puntualizza Sierra durante la sua intervista con “la Lettura” — poiché lo sono quasi tutti gli ambiti dell’azione umana: ma forse questo è ancora più vero per l’arte perché, occupandosi di elaborare rappresentazioni, prevede la messa in scena di una visione del mondo che può essere accondiscendente o critica. Forse oggi esiste una maggiore consapevolezza di questo potere intrinseco al linguaggio artistico e gli artisti più giovani incorporano più spesso questa intenzione nella propria pratica espressiva. Non ho mai creduto che l’arte potesse trasformare il mondo, ma sono sicuro che possieda almeno la capacità di metterlo in discussione».
Cosa ha voluto dire per Santiago Sierra lavorare per la sua performance al Pac con persone senza fissa dimora? «Mi piace che tramite le mie opere sia visibile ciò che la società generalmente non vuole vedere, perché mette a disagio scoprire che il sistema è molto lontano dall’essere giusto e dal funzionare adeguatamente o perché, in fondo, risveglia in noi un diffuso senso di colpa. Le persone che noi chiamiamo emarginate non sono diverse da noi. E ogni volta che queste categorie appaiono nelle mie opere lo fanno in riferimento a una situazione che io sento molto vicina al contesto dove l’azione viene realizzata. Per esempio a Milano mi ha colpito l’elevato numero di persone senza tetto che frequentano le istituzioni di carità nelle vicinanze del Pac. Dall’altro lato, c’è sempre qualcosa di estremamente dignitoso in queste persone che non riescono a essere funzionali all’interno di un sistema corrotto e sfruttatore; questo le rende interessanti ai miei occhi. L’arte ha iniziato a essere moderna quando ha smesso di rappresentare gli dei e gli imperatori e ha iniziato a riflettere sulla realtà dei proletari e dei reietti».
La storia di Gary Lee racconta in fondo proprio la necessità di un’arte reale. Che, ad esempio, si è ricordata di lui, qualche mese dopo la fine della mostra Ri-scatti, quando Sierra ha cominciato a cercare i protagonisti della sua fila. «Prima mi hanno cercato per distribuire volantini in cui si cercavano volontari per 10 euro davanti alla mensa di San Francesco, poi ho accompagnato l’assistente di Santiago a incontrare queste persone. Perché bisogna avvicinarsi loro con grande attenzione, diventare una presenza amica “piano piano” altrimenti scappano. Lo so perché ho provato anch’io la stessa paura». Anche per questo Gary Lee (sguardo chiarissimo dietro un paio di occhiali da vista dalla montatura leggera, una pelle segnata dal troppo sole e dal troppo vento, Tshirt grigia e jeans) ama le opere di Sierra che più sente simili, come la grande sbarra sorretta da due operai: «Mi fa pensare allo zaino che portavo addosso per 14 ore al giorno». E di Sierra che giudizio ha? «È stato molto onesto, ci ha pagato il dovuto, non si è approfittato di noi».
Il mondo per Gary Lee si divide oggi tra quelli «che al mattino si alzano, escono in giacca, cravatta, scarpe lucide e che fanno colazione con cappuccino e brioche; i pochi che non hanno bisogno di lavorare; e poi gli emarginati». Di una vita che in qualche modo sembra aver superato si ricorda ancora molto: «Quando ero un clochard mi alzavo alle quattro del mattino, perché sia che si dorma sul treno o sotto un ponte, bisogna comunque alzarsi sempre prima degli altri e andare a dormire per ultimi, quando tutti già dormono, perché così si possono evitare brutte sorprese». Non era vita, «piuttosto un terribile incubo». Che sembra finito: «Tra due settimane torno in Colombia, torno a insegnare, qualcuno si è ricordato di me. Tornerò a Milano, ma da turista».