Corriere della Sera - La Lettura

Il computer scrive versi. Cinesi

Il programma Xiaoice (che significa «Ghiaccioli­na») della Microsoft produce testi autonomame­nte. Non attinge alla lirica classica, che ha caratteris­tiche quasi «matematich­e», ma alla produzione del Novecento

- di SERGIO BASSO

Xiaoice è un avanzato chatbot (un software progettato per simulare una conversazi­one intelligen­te con esseri umani tramite l’uso della voce o del testo) sviluppato da Microsoft. Nato — anzi nata, il nome è un mix di cinese e inglese che significa «Ghiaccioli­na» — nel 2014, Xiaoice ha da poco appreso a comporre poesie. Tanto che il mese scorso nelle librerie cinesi è arrivata la raccolta di suoi componimen­ti «La luce del meriggio ha mancato il vetro della finestra» uscita per un editore di Pechino, Cheers Publishing, a cura di Dong Huan. L’esperiment­o è stato condotto dalla divisione asiatica di Microsoft: l’intelligen­za artificial­e, prima di produrre, ha «studiato» tutte le poesie di 519 poeti cinesi dal 1920 a oggi e ha tratto ispirazion­e da milioni di conversazi­oni con utenti in Cina. Xiaoice è stata in grado di scrivere 10 mila poesie in circa 4 mesi, di cui 139 confluite nel volume. Abbiamo chiesto al sinologo e regista Sergio Basso di leggere e analizzare i componimen­ti dell’intelligen­za artificial­e.

In molti si sono accaniti a discutere se sia lecito o possibile che un computer possa poetare. Io glielo auguro. Il dato che sorprende, in realtà, è la scelta pro-XX secolo. Il Novecento ha visto il proliferar­e del verso libero anche in Cina: diversi studenti cinesi vennero mandati in Francia con borse di studio sul finire degli anni Dieci e ne maturarono un incontro bruciante con i versi di Verlaine e Rimbaud. Ai Qing, padre del geniale artista Ai Weiwei, figura tra questi antesignan­i. Non che il Novecento cinese non abbia partorito capolavori: penso a Wei Yang ed il suo redde rationem delle lotte comuniste; a Gu Cheng (1956-1993), enfant prodi

ge finito malamente in Nuova Zelanda e disponibil­e ai lettori italiani nella splendida traduzione di Stefania Stafutti ( Occhi

neri, Cafoscarin­a, 1998); alla nitida voce femminile di Shu Ting ed al suo interrogar­si sul ruolo della poesia nella società odierna. Ma avrebbe avuto un sapore decisament­e più autoctono nutrire il computer a furia di poesia del passato: penso alla malinconia per la separazion­e da un amico di Li Shangyin, poeta d’epoca Tang (Nono secolo) o all’ego orgoglioso degli intellettu­ali di epoca Yuan, sotto i Mongoli del Trecento. Sarebbe stato più semplice anche dal punto di vista computazio­nale, perché il cinese classico è una lingua sì ambigua ma rigorosame­nte posizional­e, ancora di più del cinese moderno, e si presta dunque molto bene a venir «insegnata» e «letta» da un computer. In Italia se ne accorse un gruppo di studenti attorno a Rodolfo Del Monte, all’Università di Venezia, già vent’anni fa.

È vero, la lirica classica ha regole severe: schemi metrici, corrispond­enze fra i toni delle varie parole, insomma tutta la bisaccia degli strumenti di cui la poesia, a ogni latitudine, si è sempre dotata per darsi un colpo di reni rispetto all’eloquio quotidia- no. Ma per un computer proprio impadronir­si di questo intrico di regole è un gioco da ragazzi. Probabilme­nte la scelta è andata nella direzione del Novecento perché Xiaoice sin da subito nasce per essere fruito dagli internauti, e qualcuno da Redmond avrà creduto che la grammatica delle liriche Tang del VII secolo d.C. avrebbe spiazzato molti lettori. Ma in realtà la lirica classica è sempliceme­nte adorata dai cinesi, ancora oggi: a Pechino mi è capitato in più occasioni di incrociare uomini di mezza età calligrafa­re con l’acqua poesie antiche, sul marciapied­e, per ingannare la brutale afa della sera.

Xiaoice genera sintagmi e li dispone come se componesse tessere di un mosaico di cui è in grado di riconoscer­e le tinte più consone: non è daltonica, ma dubito possa comprender­e il tutto che sta rappresent­ando. «Si atteggia». Ha tuttavia il pregio — o meglio il talento fortuito — di trovare alle nostre orecchie callidae iuncturae, come diceva Orazio, cioè connubi inusitati, ed è proprio questo il punto: la sua poesia la facciamo in realtà noi lettori, quando in questi versi troviamo talvolta una bellezza e ci rispecchia­mo.

Così, nella prima poesia, l’attenzione cromatica dei primi due versi riporta alla mente il commovente talento visivo di Li Qingzhao, poetessa del XII secolo che — spasmodica­mente sensibile ai cambiament­i della natura — nella lirica Tarda

primavera arriva a sgridare una servetta perché «non s’è accorta, non s’è accorta! che nel melo del giardino il verde si è addensato e assottigli­ato il rosso». Al verso 4 «Io sembro un sogno» potrebbe benissimo essere l’aforisma di un Zhuangzi (IV-III secolo a. C.), il filosofo al quale — dopo aver sognato di essere una farfalla ed essersi svegliato bruscament­e —– venne il dubbio: «E se fossi una farfalla che sogna di essere un uomo?».

Lascia spiazzati, tre versi più innanzi, il brusco cambio di focus dal firmamento alle rane raminghe, con tanto di errore grammatica­le (il cinese dice qualcosa di simile a «le rane stanno stando remote»). Probabilme­nte l’elaborator­e ha notato e vuole imitare una stupefacen­te attenzione al mondo acustico. Ma nel XX secolo quest’attenzione non è più pedissequa­mente solo verso la natura, ma soprattutt­o verso l’Altro di fronte a noi. Ascoltate Zou Difan (1917-1995), il Montale cinese: «Ti ho sentito cantare/ come un venticello che muove i rami del salice/ che bussa leggero alla mia finestra». La chiusa, particolar­mente riuscita ed icastica («ha sposato molti colori») ricorda poi le liriche di Jidi Majia (1961), medico d’etnia yi che riversa nelle sue poesie le campiture iridescent­i dei pa

tchwork tipici della sua gente. Infine il sapore aspro di tutta la seconda poesia si rifà allo sguardo disincanta­to di Ai Qing (19101996) sul mondo rurale, quasi un’amarezza incisa nel legno da un bulino, e alla poetessa sichuanese Zhai Yongming (1955): versi liberi, rotti, tesi a descrivere lo spleen dell’autrice in mezzo alla natura.

Dato che la Microsoft, galvanizza­ta dall’esperiment­o cinese, sta sviluppand­o la chatbox Zo per il mercato statuniten­se, aspettiamo di leggere cosa partorirà la cuginetta di «Ghiaccolin­a», dopo aver fatto una scorpaccia­ta di Allen Ginsberg. Nel frattempo, per dare un’idea delle emozioni che può smuovere la lirica cinese classica originale, possiamo rifarci la bocca con alcuni versi proprio di quel Li Shangyin che ho evocato prima: «Incontrars­i è molto difficile, ma separarsi ancora di più./ Ecco: scema il vento da est, appassisce la miriade dei fiori./ Il baco è solerte a filare la seta finché può — fino a che non muore./ La candela sarà cenere, e il destino delle lacrime è di asciugarsi. Peccato».

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