Corriere della Sera - La Lettura
E intanto l’Europa scopre il bluff socialdemocratico
Non è vero che il welfare si deve alle forze di sinistra che adesso sono vittime del loro superficiale pragmatismo
Un nuovo spettro si aggira per l’Europa: il declino apparentemente irreversibile della socialdemocrazia. Ne ha trattato Michele Salvati, su «la Lettura» #261 del 27 novembre 2016, prima ancora che il tracollo socialista alle presidenziali francesi richiamasse definitivamente l’attenzione su quella che appare come la prima vittima dell’attuale scardinamento dei sistemi partitici europei. Esponendo il problema in termini calcistici, Salvati raccontava del «perverso gioco di squadra» tra due destre, una liberista e l’altra tradizionalista e comunitaria, rispetto alle quali il socialismo democratico sembra destinato a rincorrere vanamente la palla col fiato sempre più corto. Ancora più impietosamente, il politologo belga Pascal Delwit ha rimarcato come la serie di pessimi risultati inanellati dai singoli partiti in ogni angolo del continente porti a concludere che, da quando vige il suffragio universale, i consensi alla socialdemocrazia europea non siano mai caduti così in basso in tempo di pace.
La storia elettorale del continente ha abituato a un’alternanza di alti e bassi elettorali sorprendenti. Eppure in questo caso le cifre sembrano la proverbiale punta dell’iceberg di una crisi di idee prima ancora che di risultati. Anche là dove non si sia ancora registrato un crollo di consensi, la permanenza dei socialisti al governo è garantita spesso da coalizioni «contro natura» con partiti collocati alla destra dello spettro politico, in un’apparente atto di estrema resistenza (o conservazione, per i detrattori) all’ascesa di forze variamente definite «populiste». Eclatante per continuità è il caso austriaco, ma molto rumore ha suscitato anche la decisione dei socialisti spagnoli di agevolare la nascita del governo Rajoy, mentre in Italia i governi guidati dal Pd in questa legislatura sono sorretti da una maggioranza che comprende una formazione di centrodestra. In più di un caso la lunga coabitazione ha posto le basi per un collasso elettorale difficilmente reversibile, come accaduto al Partito laburista olandese e al Pasok greco. Un discorso a parte merita la situazione tedesca: se in passato la Grande Coalizione aveva rappresentato un artificio costitutivamente temporaneo per far fronte all’emergenza, essa si è tramutata nell’opzione favorita anche per la Spd che, nonostante il preteso «effetto Martin Schulz» finora affermato più dai media che dai risultati, pare incapace di uscire dal ruolo ancillare rispetto alla Cdu della cancelliera Merkel. Ancora più grave è la scarsa attrattiva dell’etichetta socialdemocratica rispetto al passato: se un tempo, in Paesi tornati alla democrazia (Spagna, Portogallo e Grecia, poi gli ex satelliti dell’Urss), più di un partito aspirava a fregiarsi di una simile affiliazione continentale, praticamente nessuna delle formazioni nate di recente nell’alveo della sinistra europea ha ritenuto di dover fare altrettanto.
Se il futuro rimane incerto, la crisi presente può almeno spingere a una rilettura critica della storia della socialdemocrazia postbellica. Un equivoco diffuso identifica i cosiddetti «trenta anni gloriosi», tra la fine della Seconda guerra mondiale e i primi anni Settanta, con il trionfo della socialdemocrazia, che avrebbe realizzato gran parte dei suoi obiettivi. Ma tale identificazione postuma passò invece attraverso un profondo ripensamento identitario, dovuto a sua volta a una prolungata condizione di emarginazione dal potere. Tale appare alla distanza il noto programma di affrancamento dal marxismo approvato dalla Spd tedesca a Bad Godesberg nel 1959 e divenuto ben presto la pietra di paragone ammirata o detestata del rinnovamento socialdemocratico. Non solo in Germania occidentale, ma anche in Italia, in Belgio, in Olanda, prevalentemente anche in Francia, furono partiti cattolici o comunque non afferenti alla sinistra a gettare le basi del modello postbellico di democrazia liberale, accompagnato da modelli estensivi di welfare state e dal processo di integrazione continentale. La vittoria dei laburisti britannici del 1945 appare un’eccezione, ed essi cedettero presto il passo a una lunga egemonia conservatrice, avendo rinunciato nel frattempo ai piani originari di palingenesi in senso socialista.
In Germania Ovest, in Gran Bretagna e progressivamente negli altri Paesi, la cancellazione dell’orizzonte di lungo periodo, elemento costitutivo della socialdemocrazia più che di altre famiglie politiche, fu il prezzo pagato per candidarsi al governo del benessere e dell’affluenza: certamente per introdurre maggiore equità e inclusività, ma pur sempre nell’orizzonte dell’esistente. Se per Tony Judt la socialdemocrazia dell’immediato dopoguerra appariva come «una prassi alla ricerca vitale della propria teoria», tale ricerca pareva abbandonata già negli anni Cinquanta. Ne conseguì la rinuncia a elaborare nuove strategie di ampio respiro, in mancanza delle quali la socialdemocrazia si trovò a subire impreparata la nuova grande crisi e trasformazione globale degli anni Settanta. Alle istanze «neoliberiste» i leader socialdemocratici non seppero o non vollero opporre altro che correttivi delle istanze più estreme e il tentativo di conservare quanto conquistato nel recente passato. Questa è anche la cifra dell’azione condotta da uno statista come il cancelliere