Corriere della Sera - La Lettura
Pericle e Gramsci lottano uniti Agli antipodi del populismo
Il politico greco e il pensatore sardo hanno in comune l’appello alla ragione umana contro le facili suggestioni dell’emotività. Come insegna lo storico Tucidide, il pericolo è la corruzione del linguaggio: l’uso delle parole non per comunicare ma per min
«Odio il movimento che crea forme scomposte »: è un verso di Baudelaire, e una descrizione della linea politica di Pericle, lo statista ateniese, a cui V in centAzoulayh ade dicato un libro appena tradotto da Einaudi. Parlava in pubblico raramente, solo nelle occasioni ufficiali, senza insultare o inveire; e senza dimenarsi troppo, per non mettere in disordine la tunica( che no nera facile da indossare). Controllato, fermo nei lineamenti, restio a tradire le emozioni: «Nessuno lo vide mai piangere», riferisce Plutarco, «né durante un funerale né sulla tomba dei congiunti» (a casa però aveva pianto, quando perse anche l’ultimo figlio). Non partecipava né organizzava feste e banchetti, che di solito costituivano l’occasione per dare sfoggio della propria ricchezza e cementare alleanze di potere.
Per avversari e critici (non sono mancati né gli uni né gli altri) si trattava di una strategia deliberata, figlia della sua arroganza e finalizzata all’obiettivo di esaltare una condizione regale o divina. Per i sostenitori (non sono mancati neppure quelli) era una necessità, per governare in un contesto turbolento. Dai comici che lo irridevano a Hitler che lo esaltava, la convinzione è sempre stata la stessa, ben espressa dallo storico Tucidide, creatore del mito pericleo: «Di nome era una democrazia, di fatto il potere era nelle mani del primo cittadino». Si sa, il popolo, la massa, è per definizione volubile, incompetente, incostante.
È notizia di qualche tempo fa che, mentre Donald Trump rimane incollato davanti ai telegiornali dei canali Fox, i suoi consiglieri si cimentano nella lettura di Tucidide. Il suo libro prospetta in effetti uno scenario simile a quello che stiamo vivendo oggi. Racconta di un conflitto, tra Atene e Sparta, che ebbe conseguenze disa- strose e che forse si sarebbe potuto evitare. Se così non fu, è perché quasi sempre, quando una potenza affermata (Sparta) si trova a fronteggiare una potenza emergente (Atene), la prima sceglie la guerra nella speranza di conservare la propria posizione egemonica. È la «trappola di Tucidide», secondo la fortunata formula di un professore di Harvard, Graham Allison. E oggi? Come si comporteranno gli Stati Uniti con la Cina, la potenza mondiale emergente?
Indubbiamente c’è dell’ironia nel fatto che gli esponenti di punta di un governo orgogliosamente populista si rifacciano a Tucidide, che sul popolo scrisse parole di fuoco. La tesi che Sparta fosse la potenza dominante e Atene quella emergente è invece opinabile, visto che Atene, allo scoppio della guerra, era da tempo un impero affermato. Ma non è il caso di sottilizzare. La vera «trappola di Tucidide» del resto è un’altra. Certo, lo scontro tra le due potenze è un motivo importante dello scritto tucidideo. Ma il vero tema di fondo è un altro, è il collasso di una comunità: è successo ad Atene, e non solo là. Può sempre succedere, perché gli uomini sono sempre gli stessi. Apparentemente animati dalle migliori intenzioni, dominati in realtà da forze oscure di cui spesso non sono consapevoli: paura, ricerca del proprio interesse, desiderio di affermazione di sé stessi. Fino a che le cose vanno bene, la società riesce a contenere le passioni potenzialmente rovinose. Ma è una situazione precaria, che rischia sempre di saltare, quando nuovi elementi modificano gli equilibri esistenti. È instabile il mondo degli uomini.
Pericle è uno dei pochi protagonisti positivi della storia di Tucidide: è uno dei pochi, cioè, che in un momento di isteria cre-
scente non abdicano all’uso della ragione. Le sue scelte comunicative si spiegano in questo contesto. Raramente si presta attenzione al linguaggio, come se le parole fossero qualcosa di neutro, che serve semplicemente a indicare una realtà di per sé evidente, ovvia. Ma non è così. La realtà non è mai unica o indipendente: è plurale, variegata, perché dipende dai nostri punti di vista, che sono molteplici. Le parole sono lo strumento che può permetterci di costruire una prospettiva condivisa. Non è semplice, soprattutto nei momenti di difficoltà, quando per ciascuno è più urgente far sentire la propria voce e i propri problemi. L’adozione di un linguaggio forte, fatto di proclami, insulti e invettive, viene giustificato a partire dalla necessità di liberare la realtà dalle parole che l’hanno deformata, per dire finalmente le cose come stanno. È un’illusione, che nasconde la sconfitta di chi non sa (o non vuole) più parlare con chi la pensa diversamente.
Il tono controllato di Pericle, il suo riserbo e la sua moderazione, sono il contrario di tutto questo, esprimono la convinzione che l’intelligenza umana sia in grado di affrontare le sfide della realtà. È un modo di raffreddare le passioni, difendendo uno spazio per la ragione. È la cifra del vero politico: la capacità di elaborare un percorso che riconosca l’esistenza dei diversi punti di vista, che non rimuova le difficoltà, ma proponga delle scelte, per orientare il corso degli eventi. Perciò le parole (i pensieri, i ragionamenti, i discorsi) servono: per mettere ordine tra i fatti e per discuterli con gli altri. Per dare forma, come scriveva Baudelaire.
Pochi anni dopo la morte di Pericle, molte città della Grecia (alla fine anche Atene) furono sconvolte da guerre civili, con tuttala sequenza di atrocità che si accompagnano a queste vicende e che nessuno crede possibili fino a che non si verificano. Mail vero problema, è il solito Tucidide che scrive, non erano tanto, o soltanto, le violenze; più grave era la constatazione che il linguaggio si era ormai irrimediabilmente corrotto: rifletteva realtà diverse e non più collegate, come pezzi di uno specchio andato in frantumi. Non c’era più modo per i cittadini di comunicare tra loro: non c’erano più persone, solo nemici. «Chi inveiva infuriato riscuoteva sempre successo; chi cercava di prevenire era considerato pauroso e disgregatore del suo gruppo». Tentativi come quelli di Pericle possono apparire velleitari. Di certo si sa cosa accade quando lo spazio per le parole si è definitivamente chiuso. Nel mondo delle opinioni, in cui volenti o nolenti ci troviamo, il confronto è obbligato: dopo non resta che lo scontro. «A parole servivano lo Stato, in realtà lo consideravano alla stregua di un bottino; e lottando senza esclusione di colpi per avere il sopravvento, osarono le azioni peggiori. Così in Grecia si vide ogni pervertimento dei costumi».
Una volta Antonio Gramsci fu accusato di scrivere testi complicati, difficili, e dunque inutili. La sua replica non sarebbe dispiaciuta a Pericle: era vero, rispose, e avrebbe continuato a farlo, perché credeva «onesto trattare i lavoratori come uomini a cui si parla apertamente, crudamente, delle cose che li riguardano. Purtroppo gli operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere guidati, dal pugno di ferro del padrone, dalla parola roboante e melliflua dei demagoghi. (…) Volete che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un uomo, e il più grande passo in avanti sarà già fatto». In fondo, almeno questo è chiaro: una democrazia ha bisogno di fiducia. Non può prescindere dalla fiducia negli altri, nella capacità degli altri di capire le tue ragioni e far valere le loro. In democrazia non si parla a una massa informe, ma a individui responsabili. E lo si deve fare nel modo giusto, come insegnava Pericle.