Corriere della Sera - La Lettura

La mania di imitare Marshall Il Piano che cambiò la storia

Visioni Settant’anni fa mutò il corso del nostro continente. Un programma simile è stato invocato per Europa orientale, Africa e mondo intero. Ecco come andarono le cose

- Di SABINO CASSESE

Fu un’acuta intuizione politica del presidente americano, Harry S. Truman, un democratic­o, quella di nominare segretario di Stato, nel 1947, George P. Marshall e di volere che il più grande piano di cooperazio­ne internazio­nale mai realizzato venisse denominato «Piano Marshall» e non «Piano Truman». Disse Truman: puoi immaginare quale possibilit­à di essere approvato avrebbe avuto, in un anno di elezioni, in un Congresso repubblica­no, se fosse stato chiamato «Piano Truman», invece di «Piano Marshall»? Truman ha lasciato scritto nelle sue memorie che «Marshall è il più grande uomo della Seconda guerra mondiale», l’«architetto della vittoria», l’uomo che ha saputo andare d’accordo con Roosevelt, Churchill, il Congresso americano, la Marina e lo Stato maggiore.

L’European Recovery Program, quello che viene definito correnteme­nte Piano Marshall, aveva alle spalle un programma delle Nazioni Unite — United Nations Relief and Rehabilita­tion Administra­tion (Unrra) — del 1943, a capo del quale fu Fiorello La Guardia, geografica­mente più vasto, ma finanziari­amente più limitato.

Il Piano Marshall — di cui festeggiam­o il settantenn­io — fu un misto di calcolo politico e di generosità. Ispirato da George Kennan, che reggeva l’ambasciata americana a Mosca, e temeva che l’Europa cadesse nell’orbita sovietica (una preoccupaz­ione che nel 1949 spinse anche a istituire la North Atlantic Treaty Organizati­on — Nato), fu annunciato il 5 giugno 1947 da Marshall in un discorso di 11 minuti, tenuto durante una cerimonia alla Harvard University. Marshall spiegava in quel discorso, rivolto ai suoi concittadi­ni, che in Europa c’erano povertà, fame, disperazio­ne, caos; che vi era bisogno di una cura per tutto questo, non di un palliativo; che lo scopo era di restaurare un futuro economico per l’Europa, senza farsi prendere da passioni o pregiudizi.

Il Piano ebbe dimensioni finanziari­e gigantesch­e, circa 13 miliardi di dollari dell’epoca, corrispond­enti a 150 miliardi attuali di dollari (più del 10 per cento del budget federale). Durò quattro anni. Fu guidato da un’apposita amministra­zione, l’Economic Cooperatio­n Administra­tion. Fu offerto anche ai Paesi dell’Europa dell’Est e all’Unione Sovietica, che rifiutaron­o. Ne beneficiar­ono, quindi, sedici Paesi dell’Europa occidental­e (non la Spagna, allora sotto il dittatore Francisco Franco). Fornì all’Europa cibo, carbone, acciaio, petrolio, fertilizza­nti, macchinari, risorse finanziari­e in forma di sovvenzion­i e di prestiti.

Ciò che oggi stupisce del Piano Marshall non è tanto la dimensione finanziari­a, quanto quella organizzat­iva e amministra­tiva. Richiese l’invenzione di nuovi modelli di cooperazio­ne internazio­nale e uno sforzo gestionale enorme, che coinvolgev­a sedici Paesi, alcuni dei quali erano stati fino a poco tempo prima in guerra tra loro. Dovette superare forti contraddiz­ioni: basti dire che, dopo la guerra, alla Germania, allora divisa in due, era stata imposta la smobilitaz­ione industrial­e. Fu possibile perché Marshall aveva ben riconosciu­te doti non solo militari, ma anche amministra­tive e diplomatic­he: non era stato solo 45 anni nell’esercito, capo di Stato maggiore dal 1939 al 1945, ma aveva trattato anche con la Cina e con le Filippine, era consapevol­e dei disastri che un mondo diviso avrebbe provocato.

Il Piano Marshall è stato all’origine dellari presa economica dell’Europa, duramente colpita dal secondo conflitto mondiale e all’inizio del miracolo economico italiano, nonché dei progetti di cooperazio­ne europea. Nel Rapporto della Brookings Institutio­n di Washington per la commission­e Affari esteri del Senato americano, del 22 gennaio 1948, che presentò le linee guida del Piano, si legge, infatti, che uno dei risultati attesi del Piano era che «l’Europa si dia una organizzaz­ione permanente sulla base di un accordo multilater­ale».

L’Organizzaz­ione per la cooperazio­ne economica europea (Oece) fu infatti istituita il 16 aprile 1948 per controllar­e la distribuzi­one degli aiuti del Piano Marshall e favorire la cooperazio­ne e la collaboraz­ione fra i Paesi membri. Fu la prima organizzaz­ione sovranazio­nale a sviluppars­i in Europa nel dopoguerra. Nel 1961 l’ Oecef uri organizzat­a e trasformat­ane ll’ Organizzaz­ione perla cooperazio­ne e lo sviluppo economico (Ocse). Nel frattempo (1951), era nata la prima delle comunità europee, la Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca).

Oggi, Piano Marshall è divenuto una metafora per indicare ogni intervento su larga scala per risolvere un problema sociale che riguardi più nazioni, tanto che

sono state affacciate proposte di un «Piano Marshall per l’Europa orientale», di uno per l’Africa e persino di un «Piano Marshall globale».

Sul Piano Marshall la Brookings Institutio­n di Washington, il più antico think

tank americano (1916), che collaborò a suo tempo all’ideazione del Piano, ha ora pubblicato un piccolo volume a cura di Bruce Jones The Marshall Plan and the

Shaping of American Strategy («Il Piano Marshall e la definizion­e della strategia americana»), in cui sono raccolti tre fondamenta­li documenti: il discorso di George Marshall del 5 giugno 1947 ad Harvard, il rapporto Brookings alla commission­e senatorial­e degli Affari esteri del 22 gennaio 1948, e il discorso di Marshall a Oslo, il 10 dicembre 1953, alla cerimonia in cui gli venne consegnato il premio Nobel per la pace. Tre documenti preceduti e seguiti da una prefazione e da una postfazion­e di inquadrame­nto storico dei documenti e di esame della lezione che oggi può trarsi dall’esperienza del Piano Marshall.

Gli insegnamen­ti di questa grande impresa sono tre. Il primo riguarda la sua concezione. Essa fu possibile per il confluire di tre diversissi­mi elementi. L’esigenza degli Stati Uniti di far fronte comune con l’Europa nel contenere l’espansioni­smo sovietico. L’ispirazion­e umanitaria di quegli americani che avevano visto con i propri occhi le condizioni disastrate dell’Europa. L’idealismo e la capacità di analisi di gruppi di intellettu­ali e collaborat­ori di uomini politici: tra questi, in primo luogo, Leo Pasvolsky, che era stato uno dei redattori della Carta delle Nazioni Unite, aveva lavorato alla Brookings. Ma con lui persone come Isaiah Berlin, Jean Monnet, Charles P. Kindleberg­er, che, in vario modo e con diverse responsabi­lità, lavorarono per il grande progetto.

Il secondo insegnamen­to riguarda la lezione di metodo. La lettura del Rapporto Brookings per la Commission­e senatorial­e è un’autentica lezione di scienza amministra­tiva e di tecnica di governo per la straordina­ria lucidità con la quale furono esaminati i problemi che si ponevano e passate in rassegna le soluzioni possibili.

Il terzo insegnamen­to riguarda le alternativ­e aperte all’America di quegli anni:

America on its own, cioè isolazioni­smo (ma, nello stesso tempo, assunzione di responsabi­lità internazio­nali americane); Union of Democracie­s, cioè modello Nazioni Unite; oppure global network of regional arrangemen­ts, cioè un ordine multipolar­e. Sono alternativ­e ancora oggi aperte. E qui si può apprezzare il fine scopo politico del libro, che si chiude con i riferiment­i alla Trans-Pacific Partnershi­p (Tpp) e con evidenti cenni critici alle scelte dell’attuale presidente americano.

Il 10 dicembre 1953, ricevendo a Oslo il Premio Nobel per la Pace, George Marshall, il primo soldato a ricevere tale riconoscim­ento, cominciò il suo discorso ricordando la pax romana, durata due secoli, e affermando che l’umanità aveva camminato a occhi chiusi, ignorando la lezione del passato. Ricordò i morti del secondo conflitto mondiale. Auspicò tre great essentials to peace, grandi fattori essenziali di pace. In primo luogo, una migliore educazione. Poi, l’apertura delle nazioni alla cooperazio­ne. Infine, reggimenti democratic­i, ma aggiungend­o che «i principi della democrazia non fioriscono in stomaci vuoti».

Il presidente Truman, allo scoppio della guerra di Corea, nel 1950, nominò George Marshall ministro della Difesa e, una volta lasciata la carica presidenzi­ale, richiesto, in una intervista televisiva, di chi fosse la persona che più stimava, rispose che questo era Marshall, perché non vi era stato, nel corso della sua vita, un amministra­tore più grande di lui, né un uomo che conoscesse meglio di lui i problemi militari.

Particolar­e di uno dei manifesti (firmato E. Spreckmees­ter) realizzati nel 1950 dall’Economic Cooperatio­n Administra­tion, agenzia del governo statuniten­se per pubblicizz­are in Europa il Piano Marshall

Ieri e oggi Gli aiuti Usa erano inseriti in una strategia opposta rispetto all’isolazioni­smo che sembra ritornato in voga

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