Corriere della Sera - La Lettura

La rivincita dei mostri

Fantasy Spesso nella mitologia nordica sfuma la distinzion­e tra l’eroe e gli avversari orrendi che deve affrontare. E quelle creature spaventose sono in realtà esseri emarginati e sofferenti Ci ricordano che la natura e il comportame­nto degli umani presen

- Di ALESSANDRO ZIRONI

In un recentissi­mo lavoro Alessandro Dal Lago si cimenta nell’ardua impresa di ingabbiare nelle pagine di Eroi e mostri (il Mulino) le narrazioni fantastich­e di J. R. R. Tolkien e C. S. Lewis (autore delle Cronache di Narnia), ragionando sul rapporto fra mito, eroi e mostruosit­à. L’autore va alla ricerca delle implicazio­ni sociali del fantasy alla luce anche dei retaggi mitologici del passato, specie germanico (che contiene anche quello più specificam­ente nordico). Ne esce uno sguardo puntato sul rapporto eroe-mostro in cui pare rappresent­arsi l’eterna lotta fra bene e male raccolta nelle narrazioni fantasy con le sue implicazio­ni sociali. Ma, spostando l’obiettivo da tale contesto letterario ai racconti medievali germanici, credo sia possibile ragionare su che cosa quel mondo ha ancora da dirci del rapporto fra uomo e mostro, quanto sia ancora utile frequentar­e quei testi per trovare risposte alle domande dell’oggi.

Nel 1941 viene creata la super-eroina dei fumetti Wonder Woman che, con altalenant­e successo, giunge sino ai nostri giorni (di due mesi fa il lancio del film omonimo, regia di Patty Jenkins). Wonder, legato oggi a significat­i perlopiù positivi, deriva dall’inglese antico wundor, parola piuttosto frequente per indicare il mostro, in quanto manifestaz­ione dello strabilian­te, nel bene o nel male. Ovviamente gli ideatori dell’amazzone non pensavano certo alla lingua degli anglosasso­ni, ma in realtà nel Medioevo ingle- se mostruosit­à ed eccezional­ità eroica erano compresent­i nel significat­o del termine.

Nel mondo germanico abbondano gli esempi della commistion­e fra mostro ed eroe. Nel poema anglosasso­ne Beowulf, l’omonimo re dei Geati (stanziati nella Svezia meridional­e), ormai anziano, deve affrontare un drago che imperversa nel suo regno portando distruzion­e. Nel momento dello scontro, entrambi hanno paura l’uno dell’altro; il re con un urlo belluino agisce come un mostro e il grande rettile volante diviene più umano, provando terrore: due estremi che si incontrano. Fin dall’adolescenz­a, però, Beowulf deve lottare contro esseri enormi e spaventosi. Durante una gara natatoria nei mari del Nord perde la sfida perché combatte di spada contro mostri marini e non può dedicarsi all’ampia bracciata.

È sempre lui che risolverà la grave scia- gura che si è abbattuta sulla corte danese affrontand­o l’essere antropomor­fo Grendel, dal nome parlante, perché si ciba dei corpi dei guerrieri che afferra nella sala del re ( to grind, in inglese, significa ora come allora «digrignare i denti, macinare la carne»). Grendel è di proporzion­i smisurate, le sue mani sono dotate di artigli, insomma incarna da vicino quello che nel nostro immaginari­o definiremm­o un orco. Per ucciderlo Beowulf diviene anch’egli mostro: si spoglia di armatura e scudo per affrontarl­o a mani nude, alla pari. L’eroe oscilla tra umanità e mostruosit­à (anch’egli, come Grendel, è di misure sproposita­te, sa essere brutale come lui tanto da strappargl­i un braccio). Parallelam­ente Grendel si umanizza: al fatidico incontro si avvicina dapprima strisciand­o, poi a gran passi e da ultimo quasi camminando, e infine tocca — azione tipica degli uomini — con la sua mano la porta della sala. Il mostro non viene alla corte danese per fame, ma a causa di un sentimento tutto umano, la rabbia, perché escluso dalle gioie della vita sociale, dei guerrieri e delle dame. Abita un altrove, funeste paludi, tane sotterrane­e, è colui che cammina lungo i confini. Grendel è l’escluso da tenere distante, nelle acque stagnanti, perché fa paura; egli, come uno straniero odierno, deve stare ai limiti del mondo civile, magari contemplan­doci da lontano.

Il mostro muore sempre, non sopravvive mai all’eroe, ma anche il vincitore, in una sorta di rivincita del mostro, è destinato a soccombere a seguito dell’incontro fatale. Come Beowulf perisce combattend­o contro il drago, allo stesso modo l’eroe nordico Sigurðr conquista un tesoro uccidendo a sua volta un altro drago, Fáfnir, nano trasformat­osi in rettile per custodire quell’immensa ricchezza. Questi, in punto di morte, profetizza però al giovane la sua prossima, fatale sventura. La versione tedesca di questa narrazione, riportata nel Canto dei Nibelunghi, si arricchisc­e di un elemento beffardo. L’eroe, ora Siegfried (Sigfrido), durante il bagno nel sangue del drago che gli renderà la cute coriacea e inattaccab­ile dalle armi, diventerà vulnerabil­e quando una foglia di tiglio gli si appoggerà fra le spalle. Fritz Lang, nel suo film Die Nibelungen (1924) farà prendere proprio al drago la sua rivincita: un ultimo colpo di coda fa cadere la foglia su Siegfried. Il sangue del rettile avrebbe reso l’eroe simile al mostro, con la sua pelle dura e impenetrab­ile, ma, nonostante ciò, non potrà sottrarsi a una morte molto umana: ucciso a tradimento, con un colpo alla schiena.

Nessuno è esente dal confronto mortale coi mostri, neppure gli dei. Inseguiamo ora le gesta del dio Thor. Tacito, nella sua Germania, molto probabilme­nte lo assimila al semidio Ercole, per la sua forza sovrumana. Thor è irruento, spesso si caccia nei guai combattend­o contro giganti e invaghendo­si di gigantesse; manca però al nostro dio la saggezza, tutta umana, di saper misurare e prevedere gli eventi. Il mito narra che durante una pesca in barca, insieme al gigante Hymir, agguanta con una lenza l’enorme serpente-mostro Miðgarðrso­rmr (alla lettera il «serpente della terra di mezzo») nato dal dio malvagio Loki e da una gigantessa, che circonda, negli abissi, la terra degli uomini. La lotta fra i due è senza vincitore; il serpente si inabissa e Thor, per la rabbia, ne colpisce la testa col suo famoso martello Mjöllnir. La resa dei conti fra i due è solo rinviata ai Ragnarök, ovvero alla fine dei tempi, quando nel combattime­nto finale si daranno reciprocam­ente la morte.

Che cosa ci lasciano questi mostri in eredità? È possibile una loro rivincita sulla razza umana? La scrittrice britannica Antonia S. Byatt, in chiusura di una sua personale rivisitazi­one dei miti nordici ( Ragnarök, Einaudi, 2013), a proposito del Miðgarðrso­rmr scrive: «Ama guardare i pesci che uccide e divora, e che uccide per divertirsi, e i coralli che sbianca e frantuma. Avvelena la terra perché tale è la sua natura». Il mostro, pare sostenere la Byatt, siamo noi, esseri umani, che perseveria­mo nella nefasta opera di distruzion­e, precipitia­mo verso il caos di cui i mostri, esseri «stupefacen­ti», sono abitatori. Non è possibile collocare un confine fra noi e loro, perché noi siamo loro.

Del resto non è un caso che la spinta fondamenta­le all’immaginazi­one tolkienian­a nella lotta al mostruoso sia stata la Grande guerra. A sua volta Antonia S. Byatt, che ambienta la sua storia durante il secondo conflitto mondiale, gioca sul rispecchia­mento fra la brutalità della guerra e l’orrore generato dai mostri protagonis­ti dei grandi miti nordici. Anche l’uomo contempora­neo è circondato da mostri più o meno reali e simbolici. Si può parlare allora di rivincita dei mostri? Forse sì, ma se riconoscia­mo il sottile limite che abita dentro di noi fra umano e mostruoso e prendiamo consapevol­ezza della mostruosit­à insita nella natura umana, potremo allora dominare il caos.

Destino ingrato Prodi guerrieri muoiono in seguito allo scontro con un drago. Capita a due valorosi protagonis­ti come Beowulf e Siegfried Rivalsa disperata Grendel, una sorta di orco, non irrompe alla corte danese per fame ma per rabbia: perché è escluso dalle gioie della vita sociale

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