Corriere della Sera - La Lettura
Caporetto 1917, la disfatta che divenne metafora
Labanca: fece una guerra offensiva senza disporre di mezzi adeguati Gaspari: per oltre due anni si dimostrò il migliore stratega dell’Intesa
1917-2017 A un secolo dalla disfatta del nostro esercito, mettiamo sotto processo il comandante supremo. Si confrontano due storici: Nicola Labanca per l’accusa e Paolo Gaspari per la difesa. Al centro del dibattito non soltanto la sorpresa strategica che obbligò le forze italiane alla disastrosa ritirata fino al fiume Piave, ma anche gli assalti frontali degli anni precedenti e la disattenzione verso le sofferenze terribili dei soldati
Acento anni da Caporetto abbiamo scelto di non concentrare l’attenzione sulla disfatta in sé, per mettere invece sotto esame tutta la condotta della Grande guerra da parte italiana fino all’autunno 1917. Perciò abbiamo chiamato a discutere sull’opera del comandante supremo Luigi Cadorna due storici che hanno opinioni diverse: Nicola Labanca come accusatore e Paolo Gaspari come difensore del generale.
NICOLA LABANCA — Cadorna va giudicato come un grande esponente dell’Italia liberale. In quanto capo militare mette in atto il progetto politico di chi ha portato il Paese in guerra nell’aprilemaggio 1915: il governo liberale di destra di Antonio Salandra, con il ministro degli Esteri Sidney Sonnino e con il re. Ogni valutazione sul suo operato, per esempio circa il «mancato sbalzo iniziale», cioè l’incapacità dell’esercito di condurre un’offensiva a fondo nei primi giorni di guerra, deve tenere conto del fatto che Cadorna non ha i mezzi militari per condurre un conflitto così difficile. Nel suo intimo, a mio avviso, lo sa. Ma obbedisce al governo e al re: se lo vogliamo processare, bisogna accusarlo di non aver risposto no alle richieste della politica.
PAOLO GASPARI — Nel 1915, mentre si avvicina l’intervento, manca un organismo di coordinamento politico-militare. Salandra il 3 maggio denuncia l’alleanza con gli Imperi centrali, cosicché l’Austria accelera la costruzione del sistema difensivo e comincia a trasferire divisioni ai confini con l’Italia. La possibilità di trovare le frontiere sguarnite all’inizio delle ostilità, il 24 maggio, dura pochi giorni. Per giunta Cadorna deve coprire con 800 mila uomini un fronte di oltre 600 chilometri, con il rischio che il nemico colpisca alle spalle dal Trentino le forze che si stanno radunando sull’Isonzo, ma mancano ancora dei «servizi» (salmerie, munizioni, provviste varie) che si mobilitano con più lentezza. I reparti raggiungono la piena efficienza solo in luglio.
NICOLA LABANCA — La sfasatura tra governo e comando militare è un fatto noto: c’è stata già prima del 1915, sotto il fascismo e anche dopo. Ma se Cadorna accetta di avviare la guerra pur sapendo che le forze armate non sono pronte, allora le accuse contro di lui sono fondate.
PAOLO GASPARI — Sono i governi che dichiarano le guerre, i capi di stato maggiore hanno il compito di vincerle.
NICOLA LABANCA — Ma Cadorna avrebbe potuto rifiutare l’impegno e dimettersi. Il fatto che avesse le idee chiare non lo assolve, come taluni oggi ritengono, ma aggrava la sua posizione. Tra l’altro l’Italia non interviene nell’agosto 1914, quando si poteva pensare a una guerra rapida, ma nel maggio 1915, quando ormai si combatte da mesi in tutta Europa una logorante guerra di trincea. E Cadorna, nonostante questo, segue la tattica dell’attacco frontale, con mezzi insufficienti e in condizioni ambientali sfavorevoli, mentre il nemico controlla le vette e può colpire gli attaccanti dall’alto.
PAOLO GASPARI — Nessun comandante si dimette quando l’esercito si sta mobilitando ed è vulnerabile di fronte a uno già mobilitato. Prima di dichiarare guerra, Salandra avrebbe dovuto chiede-
re a Cadorna quando l’esercito sarebbe stato in piena potenza. Dopo l’inizio delle ostilità, il comandante non poteva aspettare le mosse nemiche, doveva attaccare.
NICOLA LABANCA — Qui sta la responsabilità di Cadorna: avere tradotto in termini militari, a spese dei combattenti portati al massacro, una guerra offensiva che non aveva gli strumenti per fare.
PAOLO GASPARI — Questo però vale per tutti i generali dell’epoca, che all’inizio lanciano attacchi dispendiosi perché non hanno capito che cannoni a tiro rapido, mitragliatrici e reticolati danno a chi si difende la superiorità su chi attacca. In realtà Cadorna ha solo 520 mitragliatrici e qualche centinaio di batterie di cannoni moderni, l’unica risorsa di cui dispone in abbondanza sono gli uomini. Subisce perdite, ma non più ingenti di quelle di francesi e britannici, dediti anch’essi all’attacco frontale che continua fino alla primavera del 1918, quando i tedeschi adottano una tattica offensiva basata sull’infiltrazione di piccolissimi reparti con mitragliatrici leggere, che rimette in moto la guerra di manovra.
NICOLA LABANCA — Non è vero che francesi e britannici perseverano fino al 1918 nella tattica dell’attacco frontale praticata da Cadorna: già nella primavera del 1916 danno più libertà d’iniziativa ai piccoli reparti. La stessa tattica tedesca dell’infiltrazione viene sperimentata nel 1917 a Riga contro i russi e poi a Caporetto. Inoltre la guerra italiana risente di una fragilità politica estrema: gli arretramenti attuati da altri eserciti, per consolidare le posizioni, da noi avrebbero affondato il governo. Il Paese era stato trascinato in guerra da una minoranza della stessa classe dirigente liberale (gli interventisti di destra e di sinistra, mentre i liberali giolittiani, i cattolici, i socialisti, in una parola la maggioranza, non la volevano) che non poteva permettersi battute a vuoto. Infatti nel 1916 l’attacco austro-ungarico sull’altopiano di Asiago, la cosiddetta Strafexpedition, provoca la caduta di Salandra. Cadorna invece rimane al suo posto, mentre in altri Paesi dotati di istituzioni rappresentative (Francia, Gran Bretagna, perfino in Germania) i capi militari vengono sostituiti dopo insuccessi simili. Cadorna diventa quasi inamovibile proprio perché continua a impersonare la politica dell’interventismo, del ministro degli Esteri Sonnino e del re.
PAOLO GASPARI — In realtà anche l’Italia si aggiorna. Cadorna, con il generale Alfredo Dallolio all’approvvigionamento delle armi, mette l’esercito alla pari di quelli europei. Incentiva i reparti d’assalto, gli arditi, che nascono nel luglio 1917 e sono gli unici addestrati alla guerra moderna, specializzati negli at- tacchi di sorpresa e muniti di armi automatiche. Quanto alla Strafexpedition, Cadorna prevede un attacco dal Trentino e ordina di assumere uno schieramento difensivo: il generale Roberto Brusati non lo fa e viene destituito. Cadorna poi para l’offensiva, blocca gli austriaci e appena 50 giorni dopo la Strafexpedition attua una sorpresa strategica e conquista Gorizia, con una battaglia che è l’unica vinta dall’Intesa prima del 1918. Fino a Caporetto Cadorna è il miglior generale dell’Intesa, l’unico che rimane in sella.
NICOLA LABANCA — Gorizia è un successo di rilievo nazionale, non europeo. È importante perché prima l’Italia non aveva ottenuto vittorie e anzi aveva rischiato grosso con la Strafexpedition, fallita non tanto per merito di Cadorna quanto per gli errori degli austro-ungarici. Anche la creazione degli arditi ha una portata limitata in confronto alle innovazioni adottate da altri eserciti, che concedono agli ufficiali subordinati una crescente autonomia d’iniziativa, mentre da noi la catena di comando resta rigida. E poi altrove c’è un’attenzione dei comandi verso la truppa che Cadorna non ha. Ad esempio le trincee italiane non vengono rese più vivibili: britannici e francesi restano stupiti per le loro condizioni disastrose. Certo, il terreno del Carso presenta maggiori difficoltà, ma sta di fatto che ne pagano il prezzo i soldati. In generale, poi, il popolo italiano si mostra più stanco della guerra rispetto ad altri.
PAOLO GASPARI — Cadorna ripristina i cappellani militari proprio per dare conforto ai soldati e coesione morale, aprendo la strada al patriottismo dei cattolici. Per due anni gli italiani avanzano a balzi e le trincee, preparate in fretta, servivano per andare all’attacco; le trincee vivibili erano quelle di chi si difendeva. Avanzano sul Carso e sulla Bainsizza nell’agosto 1917 e sarà l’esercito austriaco quello logorato che va dai tedeschi: «O ci aiutate, o gli italiani la prossima volta ci sfondano». Negli stessi mesi metà dell’esercito francese si ammutina e fino all’estate del 1918 non farà più offensive, ma solo presidio di comode trincee.
NICOLA LABANCA — L’Italia però sta peggio. Lo dicono le sentenze della giustizia militare, da noi più severa che altrove, e le tante rivolte per il pane, dovute al fatto che anche la popolazione civile viene trascurata, spesso lasciata alla fame. Ciò rende l’Italia, insieme alla Russia, l’anello debole dell’Intesa. Eppure nel 1917 Cadorna prosegue imperterrito le spallate sull’Isonzo. E così pone le premesse di Caporetto, perché Vienna chiede aiuto ai tedeschi. Questi ultimi, che hanno imparato la guerra d’infiltrazione, preparano in fretta e in silenzio l’offensiva d’autunno. E a Caporetto Cadorna subisce una sorpresa strategica, perché non si rende conto né delle forze che ha di fronte né della stanchezza del Paese.
Insiste perché il governo stronchi quello che lui chiama disfattismo. Ma il malessere degli italiani non si può sanare con la repressione. Qui Cadorna si dimostra un uomo dell’Ottocento, che potrebbe essere accostato al Bava Beccaris che soffocò nel sangue i moti di Milano nel 1898.
PAOLO GASPARI — Non sono d’accordo nel definire l’Italia l’anello debole dell’Intesa: il Paese tiene, anche se è il più arretrato socialmente e politicamente (il suffragio universale è del 1912, in Germania c’era dal 1871, in Francia dal 1848): i francesi si ammutinano in massa, Russia e Germania crollano dall’interno. L’Italia ha tanti morti e feriti quanto la Gran Bretagna, ma nessuno si azzarda a dire che gli inglesi hanno subito un’inutile strage. Cadorna deve gestire un esercito di contadini semianalfabeti, privi di coscienza nazionale, ma che proprio in quell’immane sacrificio capiscono di avere diritti, si sentono finalmente cittadini di uno Stato. Ma le classi dirigenti non sono ancora pronte a farli entrare, li considerano ancora sudditi, da ciò una disciplina ferrea. Quanto a Caporetto, dopo 26 mesi di assalti — come i britannici — ufficiali e soldati sono ormai esperti, ma non sono stati addestrati a una battaglia difensiva.
NICOLA LABANCA — Un generale capace si sarebbe accorto del pericolo, avrebbe preparato piani difensivi consolidando le seconde e le terze linee. Invece Cadorna ancora nell’ottobre 1917 concentra tutto sulla prima linea: quando il nemico sfonda, non ci sono forze che possano arrestarne l’impeto. Quindi il fronte italiano deve ritirarsi fino al Piave: una disfatta di proporzioni impressionanti. Ci sono due Caporetto: una è la rottura, tra il 24 e il 27 ottobre 1917, quando gli austro-tedeschi aprono un varco nel fronte italiano; l’altra è la rotta, dal 27 ottobre in poi, quando il nostro esercito è costretto ad evacuare un territorio molto vasto, lasciando al nemico una massa enorme di mezzi e prigionieri. Cadorna viene colto alla sprovvista dalla rottura, poi gestisce la rotta come può.
PAOLO GASPARI — Ho studiato a fondo i documenti d’archivio. Tecnicamente, quando i tedeschi erano riusciti a piazzare di notte e in segreto i loro 1.160 cannoni, che si aggiungevano ai 900 austro-ungarici, avevano già vinto la battaglia! Avevano una superiorità di fuoco di 3 a 1, sapevano dov’erano le batterie italiane, mentre gli italiani non sapevano dove erano quelle nemiche. Avevano una superiorità numerica nel punto di attacco, una tattica (5 a 1 per le mitragliatrici) e anche di qualità dei comandanti (delle 11 divisioni tedesche d’assalto, su 250, ben 7 erano a Caporetto). I reggimenti di linea italiani si ritirano fermandosi a combattere almeno sei grandi battaglie che non figurano in alcun libro di storia: i 300 mila prigionieri che il pregiudizio segnala come fuga e resa sono invece la prova che, pur sconfitti, i reparti continuarono a combattere. Con i pregiudizi si stravolge l’accaduto. Delle sei, l’unica battaglia ricordata è Pozzuolo, perché vi partecipa la cavalleria, espressione della classe dirigente: la plebe si arrende, l’élite combatte. È questa la mentalità che porta Cadorna a scrivere il comunicato ignobile in cui accusa i soldati di essersi arresi senza lottare, ma la cosa sorprendente è che nessuno lo contesta.
NICOLA LABANCA — In Italia qualcosa del genere era già avvenuto per le sconfitte di Adua e di Custoza.
PAOLO GASPARI — Infatti non si tratta solo di Cadorna, è un’intera classe dirigente che ragiona così. Inoltre a giugno c’era stata la battaglia di Flondar, in cui gli austro-ungarici catturano 9 mila prigionieri in poche ore. Un episodio che induce Cadorna a pensare che lo stesso fosse avvenuto a Caporetto, dove invece i nostri soldati si erano battuti come leoni. Quelli che si ritirano in disordine non sono i reparti combattenti, ma quelli dei servizi di cui si è detto prima, gente non addetta a sparare e che non ha armi.
NICOLA LABANCA — Gaspari ha il grande merito di aver minuziosamente ricostruito nei suoi libri gli eventi dei primi giorni di Caporetto-rottura e i successivi tentativi di resistenza. Ma questa è solo una parte della verità. Se i tedeschi avanzano velocemente, è perché manca un piano difensivo italiano, in quanto la guerra era stata pensata solo in termini offensivi. E poi dopo la rottura c’è la rotta. Le testimonianze concordano sulla presenza di mucchi di fucili gettati dai soldati durante la ritirata: in quel momento quei combattenti non volevano più fare la guerra di Cadorna e Sonnino. I 300 mila prigionieri non vengono catturati tutti con le armi in pugno. Ci sono combattimenti, che Gaspari chiama «battaglie», ma sono scontri gestiti da coraggiosi ufficiali inferiori, che spesso vengono travolti. Quando si arriva al Piave, l’Italia ha perso la sua guerra offensiva. Comincia un conflitto diverso, difensivo. Un autentico ribaltamento che nessun altro grande Paese europeo ha conosciuto, a parte la Russia. Cadorna a quel punto non può rimanere, ma francesi e britannici si stupiscono che non sia stato destituito prima, visti i magri risultati delle tante offensive precedenti. E credo che uno storico non certo di sinistra come Piero Melograni, autore di una storia politica della Grande guerra, si stupirebbe, se oggi fosse vivo, della tendenza odierna a rivalutarlo. Una tendenza che paradossalmente oggi coesiste con la più nobile compassione umanitaria verso i soldati. Al posto di Cadorna arriva Armando Diaz, che — con il nuovo governo di Vittorio Emanuele Orlando — guida una guerra diversa e di sicuro è più previdente e attento alla condizione dei soldati. La svolta c’è, evidente. Ancora una volta però chi paga il prezzo più alto per arrivare alla vittoria sono i soldati, i civili affamati, gli operai delle fabbriche militarizzate, le vittime della repressione politica contro il disfattismo. Tutte vicende di una guerra che all’inizio il Paese non aveva voluto.
PAOLO GASPARI — Volevano la guerra gli studenti, che a scuola avevano acquisito la fierezza di un Risorgimento epico che andava completato «liberando» gli irredenti. Erano una minoranza, ma il Risorgimento non era stato opera di una minoranza ancora più esigua? Quella guerra fu il momento storico in cui si creò per la prima volta la coesione tra classi popolari e borghesia e fu vinta proprio per questo; lo dicono storici insigni come Federico Chabod e Rosario Romeo. Il raggiunto amalgama è sintetizzato dal fatto che nel luogo laico simbolo dell’identità italiana, l’Altare della patria, è sepolto un fante-contadino la cui tumulazione, il 4 novembre 1921 (prima del fascismo) segnò la fine del Risorgimento. Accusare Cadorna di quelle morti in battaglia svilisce il prezzo pagato da ogni famiglia italiana, annulla nella memoria l’epica di quella prova collettiva in un centenario che sta scivolando via senza che nelle scuole si sappia l’accaduto.