Corriere della Sera - La Lettura
Il ritorno del ritratto (ma il ritratto si scioglie)
Gli amici di David Hockney, i volti di Roger de Montebello (a Venezia), le xilografie di Georg Baselitz a Carpi: il genere non è affatto tramontato. Piuttosto... scompare. Perché Urs Fischer scolpisce statue di cera che si consumano come candele: a Firenz
Davvero gli artisti hanno smesso di realizzare ritratti? È quel che in tanti si sono chiesti attraversando le ultime edizioni della Documenta di Kassel e della Biennale di Venezia. Per molti secoli, pittori e scultori si sono serviti di questa pratica per fermare e rendere eterni alcuni individui. Da qualche anno, questa «consuetudine» è andata progressivamente declinando. Al punto che molti artisti contemporanei giudicano il ritratto un genere desueto, anacronistico. Forse, anche per reagire a una delle manie che scandiscono la nostra quotidianità: il bisogno di fotografare qualsiasi faccia, oggetto o evento, concependo i nostri scatti come appunti di un infinito diario pubblico.
Dunque, un paradosso. Mentre gli artisti di oggi tendono a non ricorrere più a un «gesto poetico» che ha radici lontane, nella nostra epoca quel «gesto» continua a vivere, affermandosi come rito collettivo.
Eppure, esistono alcune personalità che ancora avvertono l’esigenza di riprendere una grande tradizione pittorica (da Leonardo a Lucian Freud). Se ne appropriano, la rilanciano, la reinventano e la mettono alla prova, introducendo in essa nuove varanti e nuove possibilità. È quel che ci dicono alcune recenti mostre: dall’antologica di Roger de Montebello (che il Museo Correr di Venezia ha appena prorogato fino al 1º ottobre) alla personale di David Hockney (alla Ca’ Pesaro di Venezia), dal piccolo omaggio a Georg Ba- selitz (ai Musei di Palazzo dei Pio di Carpi) fino alle installazioni di Urs Fischer che occuperanno il centro storico di Firenze dal 22 settembre (a cura di Francesco Bonami, nell’ambito del progetto In Florence ideato da Fabrizio Moretti e Sergio Risaliti).
Occasioni espositive, che rivelano atteggiamenti diversi. Da un lato, un pittore dotato di una notevole sapienza artigianale, d’impostazione piuttosto accademica, come de Montebello, il quale, sulle orme degli espressionisti, sente i volti come geografie dove si manifestano i moti dell’interiorità. Dall’altro lato, Hockney, che presenta personaggi più o meno conosciuti sempre nella stessa posa — seduti su una poltrona — su sfondi astratti. Dall’altro lato ancora, Baselitz, che riattiva i modi propri di una tecnica nobile, ribaltando i corpi.
Siamo dinanzi ad artisti di diverse generazioni e formazioni, provenienti da culture distanti che, seguendo sentieri non contigui, sembrano richiamarsi a un’idea «istituzionale» di ritratto, pensato come strumento per rappresentare e per raccontare visivamente una determinata persona. Ma ritrarre — lo suggerisce l’etimologia stessa della parola ( retrahere) — significa anche tirare indietro, allontanare, distogliere.
In tal senso, illuminante l’opera di Fischer. Il quale ripensa in maniera radicale la filosofia sottesa a questa disciplina. Che pronuncia un’esigenza espressiva originaria, archetipica. Si tratta di un genere antico che, ha scrit- to Jean-Luc Nancy, consente al pittore di mostrare il soggetto «assoluto»: libero da ciò che gli è estraneo, «ritirato dall’esteriorità». Il ritratto non è calco, né apparenza, ma strategia per esporre «la presenza (…) al rapporto con sé». Avventura fondata su un guardare che si dà come esperienza del custodire e dell’aver cura, è testimonianza dell’assenza: si conserva l’immagine di una persona, quando quella persona non c’è più. Fischer recupera questa filosofia, disarticolandone però le regole. Egli muove dalla lezione di due maestri del passato: Medardo Rosso — che utilizza una materia morbida come la cera per modellare superfici vibranti, rendere irriconoscibili le identità, sperimentare compenetrazioni tra corpi e ambienti circostanti